Anche i Rockefeller del noleggio piangono

Anche i Rockefeller del noleggio piangono
Noleggio

Le cose vanno osservate sempre da un diverso punto di vista.

Ad esempio, quando spendiamo il nostro tempo sui social network in pratica stiamo lavorando gratis per qualcun altro. Produciamo contenuti che le piattaforme social monetizzeranno. E spesso dobbiamo pure pagare la pubblicazione dei nostri stessi contenuti. Come noto, queste piattaforme nemmeno versano le tasse dovute nei paesi in cui guadagnano. Pertanto, dovremo pagarle noi per loro.

Anche guardando le cose da questa prospettiva possiamo, naturalmente, continuare a usare i social network; ma saremo un po’ più consapevoli di come funzionano e potremo noi stessi dare un senso alla nostra presenza.

La scorsa settimana, abbiamo evidenziato quanto sia nociva la presenza sul mercato di operatori del noleggio “mordi e fuggi”. Li abbiamo definiti “lustrascarpe”, citando un celebre aneddoto che riguarda il crollo di Wall Street del 1929.

Sono soggetti che si mimetizzano tra gli operatori professionali usando in modo ridondante e scriteriato la parola “noleggio” per definire le loro attività. Andando così a inquinare il concetto di noleggio come esperienza positiva. Nell’articolo, suggerivo ai veri professionisti di smarcarsi da questa accozzaglia, cominciando a declinare le loro soluzioni con concetti diversi e più riferiti ai vantaggi che i clienti ne ricavano.

Nessuno è immune

Anche i Rockefeller del noleggio, però, non sono immuni da pratiche che distorcono le loro altisonanti mission. Ed è questo il punto di vista su cui voglio riflettere oggi, con chi avrà la bontà di leggere.

Nelle dichiarazioni che ci passano sotto gli occhi ogni giorno (anche sui social), le vostre intenzioni sembrano tutte incentrate sulla soddisfazione del cliente. Ma poi, è di voi che parlate, non di loro.

Mi sono chiesto se sia sufficiente affermare al mercato di noleggiare soluzioni vantaggiose per essere certi di farlo realmente. Con quale periodicità, ad esempio, queste soluzioni che immagino ben congegnate, vengono sottoposte alla validazione del vostro mercato?

E, ancora prima, sono nate tutte da un’attenta analisi dei bisogni condivisa con loro?

È qui che, a mio parere, molte società leader commettono i loro più grossi errori. Nello specchiarsi continuamente, in modo autoreferenziato, su quello che fanno e offrono.

Se il cliente è il destinatario del valore generato dai nostri sforzi, i loro feedback dovrebbero essere tenuti in maggiore considerazione. Anzi, i clienti dovrebbero in qualche modo entrare nei processi aziendali. Non stiamo parlando solo di web listening, che restano spesso attività unilaterali.

Quante volte, in che modo e dove, interagiamo per ascoltare i loro bisogni, prima ancora di concepire le nostre soluzioni?

Ci interessiamo del loro pensiero durante e dopo la messa in atto delle nostre attività?

In caso di critiche, sappiamo ascoltarle bene senza metterci subito sulla difensiva o considerare il cliente non all’altezza, per usare un eufemismo?

Il cliente parte del team

Da questo punto di vista, soprattutto nel noleggio, il cliente diventa molto più di un driver del marketing. I veri professionisti dovrebbero considerare il mercato dei prospect come una componente essenziale dei loro processi evolutivi. Una sorta di community di advisor, virtuali prima, reali poi. Un esercito in movimento verso le nostre soluzioni, che in ogni momento può deviare altrove (la cosiddetta customer journey).

Certo, è una rivoluzione che vedrebbe agire responsabilmente entrambe le parti. Una partita da giocare a carte completamente scoperte perché, a quel punto, il cliente farebbe parte del team.

Nella realtà attuale, se va bene, nemmeno tra colleghi o tra superiori e collaboratori si gioca sempre a carte scoperte. Ma non vorrei deviare troppo dal tema.

Per spiegarvi meglio il mio pensiero, vi racconto due storie. La prima riguarda direttamente la nostra organizzazione; la seconda è una vicenda di quasi quindici anni fa, diventata emblema di una catena di conseguenze possibili causate da un errore molto grave: sottovalutare l’ascolto anche di un solo piccolo cliente.

In un periodo di esplosione della cosiddetta customer experience, il pericolo oggi è molto alto.

Il fornitore sbagliato

Lo scorso anno abbiamo avuto la necessità di rivolgerci a una struttura professionale di comunicazione digitale. Sulla carta, ragazzi simpatici e molto in gamba che sapevano il fatto loro (e non mancavano di metterlo in evidenza). Le fasi di esposizione delle nostre necessità sono state gestite abbastanza bene. Anche i Rockefeller del noleggio piangono

Durante l’evoluzione del progetto però, qualcosa ha cominciato a non funzionare. In pratica, ci siamo accorti di non essere esattamente al centro dei loro pensieri.

La quantità di briefing completamente fuori fuoco, le conseguenti proposte non in linea con le necessità e gli obiettivi da noi esposti (condite da una malcelata irritazione di fronte a ogni nostra insoddisfazione) ci ha fatto vivere questa esperienza, potenzialmente gratificante, in modo piuttosto frustrante. Alla fine, abbiamo deciso di sfruttare solamente le loro competenze tecniche, campo in cui si sono dimostrati molto capaci.

Con un po’ di attenzione e di dialogo in più e con una migliore gestione della relazione, avremmo potuto certamente ottenere entrambi molto di più. La sensazione finale è stata quella di esserci sentiti un cliente “non all’altezza”, quindi un’incombenza da gestire.

La cosa peggiore è che al termine della collaborazione nessuno ci ha mai chiesto niente. Eppure, al centro della loro comunicazione (che continuo a seguire) c’è sempre l’attenzione maniacale ai bisogni dei clienti, all’importanza dell’ascolto e così via. Cioè, quello che ci aveva spinto a rivolgerci a loro.

Diciamo che, dopo questa esperienza, ho un po’ meno fiducia verso il mondo delle agenzie digitali in generale e verso chi, tra loro, ama celebrare troppo i propri presunti successi. Ho imparato a informarmi meglio, cercando tra le esperienze reali vissute dai clienti e raccontate in rete.

Mi sono costruito in casa molte delle competenze che ci servivano e le stiamo anche offrendo al mercato.

Per carità, tutti possiamo sbagliare. Ma gli errori di chi dichiara di mettere il cliente al centro dei propri pensieri e poi fa il contrario, a mio parere sono più gravi. Perché generano il pensiero diffuso che si tratti solo di slogan privi di significato e che quindi fanno male a tutto un settore.

Immagino che anche nel noleggio le cose funzionino così. Non aver chiesto nemmeno un feedback, a mio parere, è stato il più grave degli errori.

Consiglierei a qualcun altro i servizi di questo fornitore? Per gli aspetti tecnici, certamente sì. Per tutto il resto, no. Se però dovessero darmi evidenza di aver compreso e, magari con qualche umile autocritica, di aver modificato il loro atteggiamento, potrei sempre cambiare idea.

La compagnia che rompe le chitarre

La seconda storia è un fatto accaduto nel 2008. Joseph Sassoon (tra le altre cose, docente di Rental Academy su questi temi) lo riporta nel suo interessante libro “Web Storytelling” (Ed. Franco Angeli).

Dave Carroll è un musicista country ancora poco conosciuto. Dovendo partire per il Nebraska, affida la sua chitarra (una “taylored” da 3.500 dollari) alla compagnia aerea United Airlines per il check-in, avvisando del suo valore.

Anche i Rockefeller del noleggio piangonoMentre l’aereo è in sosta, Dave si accorge (e con lui alcuni passeggeri) che gli addetti al carico dei bagagli si stanno lanciando la chitarra l’uno con l’altro, come per gioco. Il risultato (ovvio) è che la chitarra arriva a destinazione con un manico spezzato.

Il musicista cerca di ottenere un indennizzo, ma le pratiche vanno avanti per nove mesi senza alcun risultato. Insomma, la classica odissea che, da clienti, abbiamo vissuto più o meno tutti.

Per sfogarsi, Dave scrive una simpatica canzone su questo episodio, usando bene una delle armi più potenti della comunicazione: l’ironia. La registra con la sua band e ne fa un video. I should have flown with someone else or gone by car, ‘cause United breaks guitars canta nel video, caricato a luglio 2009 su YouTube.

Il primo giorno il brano viene visto da 150mila persone; nei successivi tre giorni, i click arrivano a 650mila. Carroll viene chiamato in TV dai grandi network in prima serata e racconta la vicenda che ha ispirato la canzone.

Nel frattempo, United Airlines lo contatta dichiarandosi disponibile a ripagare immediatamente il danno. Troppo tardi però, perché il danno irreparabile nel frattempo si sta consumando a Wall Street (sempre là andiamo a finire). Alcuni analisti finanziari, infatti, indicano nella vicenda, nel video e nei commenti virali, la causa del drastico calo delle azioni UA in quel periodo. La cosa paradossale è che, pochi mesi prima, un’indagine di mercato aveva certificato la piena soddisfazione degli utenti circa la consegna e il trasporto dei bagagli (99,5% degli intervistati).

Nel giro di un anno, il video viene visto da 10milioni di persone, ed è tutt’ora in rete con oltre 20milioni di click. Per gli americani, la United Airlines è ancora la compagnia aerea che “rompe le chitarre”. I consumatori hanno dato più fiducia a un simpatico cantante e alla sua esperienza piuttosto che alle statistiche pubblicate dalla compagnia.

Il management UA di quel periodo è stato tutto sostituito per aver sottovalutato il potere dei media online. L’azienda, ai tempi leader indiscusso nei voli interni, è uscita faticosamente, ma mai del tutto, da questa pessima immagine.

C’è bisogno di aggiungere altro?

Tag dell'articolo: noleggio

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