Il lato oscuro dello smart working

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Dopo il periodo non semplice appena trascorso, Rental Blog ha deciso di ripercorrere insieme a voi i pezzi principali che vi hanno incuriosito e tenuto compagnia negli ultimi mesi. Questo articolo, pubblicato originariamente il 26 Giugno, uno dei temi maggiormente discussi durante il periodo di quarantena: lo smart working. In particolare, questo pezzo si propone di indagarne la natura, considerandone i vantaggi, ma anche le eventuali conseguenze negative che può comportare. Nella giornata di domani, invece, potrete leggere la seconda parte di questo articolo, che cercherà di suggerire attraverso alcuni spunti di riflessione, quella che è la modalità corretta di fare smart working, verso la quale dovremmo cercare di muoverci in questo momento.

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Lavorare (da casa) stanca, potremmo dire parafrasando il titolo di una famosa raccolta di poesie di Cesare Pavese.

Dall’inizio della pandemia, infatti, circa due milioni di persone nel nostro Paese stanno facendo i conti con lo smart working o qualcosa di presunto tale, dato che non è semplice trovare una unità d’intenti di significato sul concetto.

Di smart working, o lavoro agile, una vera e propria definizione è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Legge 22 maggio 2017, n. 81 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

Il testo dichiara che lo smart working è: “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Questa definizione pone l’accento sui principi chiave di questa modalità di lavoro:

  • Flessibilità
  • Autonomia
  • Fiducia
  • Responsabilizzazione
  • Collaborazione
  • Ottimizzazione degli strumenti e delle tecnologie

Alla luce di questi principi lo smart working si propone di essere un modello organizzativo capace di favorire il lavoratore. Come?

Attraverso una maggiore flessibilità e indipendenza, concedendogli la possibilità di lavorare in un ambiente confortevole e una più ampia scelta di orari, senza ovviamente alterare il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Non sono da dimenticare i vantaggi del risparmio sui tempi di spostamento casa–ufficio, la riduzione del traffico (e relativo stress) e di spese extra quali benzina, mezzi pubblici, parcheggi, pranzo, eccetera.

Non secondario, la possibilità di evitare di incontrare ogni giorno eventuali colleghi fastidiosi (e relativo stress), gestire – almeno teoricamente – i propri spazi e adottare le proprie tempistiche per svolgere una determinata mansione.

Quindi, più tempo per il lavoro ma anche per sé stessi.

Insomma, con il lavoro cosiddetto agile “sono io responsabile di quello che faccio e devo farlo affinché ci siano risultati nei tempi e nei modi concordati”.

Solo vantaggi?

Eppure, se osserviamo cosa sta succedendo nelle ultime settimane durante le quali, per affrontare l’emergenza sanitaria e il conseguente distanziamento sociale, ci siamo trovati a dover riorganizzare rapidamente tutte le nostre attività e abitudini lavorative, le impressioni che ne ricaviamo non sembrano essere così positive.

Un sondaggio di LinkedIn ha rivelato che, se da una parte sono stati fatti progressi incredibili in un lasso di tempo molto breve, dall’altra il 46 per cento degli italiani intervistati afferma di aver provato un iniziale shock nel convogliare tutta la propria routine lavorativa tra le mura domestiche.

La stessa percentuale conferma di sentirsi più ansiosa e stressata per il proprio lavoro rispetto a prima, manifestando disagio, fatica, stati d’ansia, insonnia, attacchi di panico (secondo il sondaggio LinkedIn il 27% degli intervistati ha difficoltà a dormire, il 22% prova una qualche forma di ansia, mentre un altro 26% sente di non essere concentrato durante il giorno).

Insomma, oltre allo stress provocato dalla pandemia, per molti lavoratori la salute mentale è stata influenzata negativamente dal fatto di lavorare da casa, tanto da poter parlare di vera e propria sindrome da burnout da smart working.

Cosa si intende per burnout

Il termine burnout si può tradurre in italiano come “esaurimento”, quindi come decadimento emotivo correlato allo stress eccessivo da lavoro.

Nello specifico la sindrome da burnout è la conseguenza di una condizione stressante intensa e prolungata nel tempo, che colpisce soggetti che esercitano professioni di aiuto.

Negli ultimi anni però, il termine è stato esteso a tutti quei contesti professionali che conducono il lavoratore a sperimentare esperienze altamente stressanti.

I segnali di un possibile burnout sono di diverso tipo.

Possono presentarsi sintomi fisici e psicosomatici, come emicranie, colon irritabile, insonnia e sintomi psicologici, come stati d’ansia, attacchi di panico, episodi depressivi. Questi sintomi si ripercuotono sulla sfera lavorativa con comportamenti come assenteismo, conflitti lavorativi, scarsa concentrazione, eccessivo affaticamento.effetti-negativi.smart-working

I riflessi negativi dello smart working

Come è possibile allora che un modello organizzativo come lo smart working, che dovrebbe favorire il lavoratore, attraverso una maggiore indipendenza e flessibilità, un ambiente più confortevole e una più ampia scelta di orari, si sia trasformato paradossalmente in un’esperienza così negativa e faticosa?

La verità è che l’emergenza Covid, anche sul fronte organizzativo, ci ha portato a improvvisare parecchio e il tipo di situazione lavorativa che stiamo affrontando è molto diversa da quella prevista dallo smart working “classico”, mettendoci di fronte a molti elementi che possono favorire questa sensazione di burnout.

Tra i primi la totale mancanza di confini, fisici e temporali.

La recente quarantena ci ha obbligato a rivedere la divisione degli equilibri tra lavoro, famiglia e tempo libero. Tra le diverse parti della nostra vita non sembra esserci più divisione di spazi: tutto si svolge nello stesso posto, la casa.

Sullo stesso tavolo pranziamo, mandiamo email, giochiamo con i figli. Anche il tempo non è più così scandito: c’è chi mentre lavora, si mette a fare una lavatrice o aiuta i figli con i compiti.

Ci siamo trovati a compiere uno slalom costante tra gli impegni familiari e quelli dell’ufficio. Un tipo di stress, quello di trovare un equilibrio tra vita privata e lavoro, che di solito ricade maggiormente sulle donne, perché su di loro, più spesso, grava il carico pratico e mentale della casa e dei figli, se ci sono.

E durante il lockdown, lo stress è peggiorato a causa della chiusura delle scuole e di tutte le attività extra domestiche, con il risultato che in molti ci siamo ritrovati a fare tutto alla stessa scrivania, magari con i bambini sulle ginocchia.

La nostra casa si è fusa con lo spazio professionale, quindi quello che dovrebbe essere percepito come un “posto sicuro”, per molti è stato inquinato da elementi esterni, a volte carichi di preoccupazione.

Alla mancanza di confini “fisici”, si è aggiunta l’assenza di confini temporali. “Non riesco a staccarmi dal cellulare neanche in pausa o dopo la fine dell’orario di lavoro che, per inciso, non esiste più” mi ha confessato una persona che si è rivolta a me in questo periodo a seguito di disturbi d’ansia e del sonno.

La verità è che questo smart working improvvisato non solo ci ha costretto a fare tutto dalla stessa scrivania, condividendo spazi e strumenti tecnologi con partner o figli impegnati in videochiamate, lezioni scolastiche on line, conference call, ma anche a non avere orari ben definiti.

La gestione del tempo

Secondo il già citato sondaggio di LinkedIn, il 48% degli intervistati ha affermato di lavorare di più (almeno un’ora in più al giorno, che fanno almeno 20 ore di più al mese!).

Non solo, il 22 per cento dei lavoratori si è sentito spinto a rispondere più rapidamente e a essere disponibile online più a lungo del normale.

Sempre il 22 per cento degli intervistati ha iniziato le giornate in anticipo, lavorando dalle 8 alle 20.30 e il 24 è ora solito concludere la giornata di lavoro anche dopo le otto ore previste dal contratto.

Tutt’altro che un’esperienza felice di flessibilità e autonomia, che consente più tempo per sé quindi: lo smart working degli ultimi mesi ha portato molti di noi a sentirsi in dovere di essere sempre disponibili.

D’altronde, già è difficile porre dei limiti al lavoro quando si ha quel treno da prendere per tornare a casa, figuriamoci se a casa ci sei per forza!

E così, succede che molti di noi faticano a staccare la spina a fine giornata, trasformandosi in potenziali “workaholic” che faticano a non sentirsi in colpa nel prendersi del tempo libero e che, in assenza di altri impegni particolari, finiscono per leggere le email e le notifiche dei colleghi di lavoro e dei clienti, ben oltre l’orario.

Non dimentichiamo inoltre che lo smart working di emergenza al quale ci siamo velocemente dovuti adattare, è stato attuato in una situazione di impreparazione organizzativa e, spesso, totale incertezza economica, retributiva e sulla privacy.

Non tutti i lavoratori hanno a disposizione, o sono stati muniti dalle aziende, degli strumenti informatici adeguati per essere attivi con costanza e puntualità, generando situazioni anche logisticamente inadeguate (purtroppo, per altro, nel nostro paese abbiamo una parte della popolazione che vive in zone ancora non coperte da Adsl).

Ci siamo trovati di fronte a una “inefficienza e impreparazione da interazione online”, fatta di connessioni lente, eccesso di riunioni, di call online infinite, di necessità di scrivere tutto ciò che prima si poteva comunicare velocemente al collega, interrompendo il nostro lavoro per passare da una finestra all’altra di Internet in attesa di una risposta.

Insomma, condizioni che, più che rendere “agile” il nostro lavoro, ci hanno portato a diventare matti di fronte ai (dis)funzionamenti delle tecnologie, alimentando una condizione di malessere, stanchezza, stress e ansia.

Con riflesso anche sulla qualità dei risultati e delle relazioni.

Verso quale smart working

No, questo non è il vero smart working!

In questa fase abbiamo sperimentato uno “smart working di emergenza”, nel quale si sono semplicemente abbinati il concetto teorico di lavoro agile e quello, più empirico, di lavoro da casa.

Ma non c’è stata una vera autonomia di scelta del luogo da cui lavorare, non si è parlato di responsabilizzazione, non c’è stata una formazione né una sensibilizzazione da parte dei capi, non ci sono state neppure le necessarie garanzie retributive.

gestione-tempo-smart-workingTutto questo ha comportato un senso di stress, di disorientamento, di sopraffazione, di ansia, di burnout, condizioni che non sono figlie dello smart working in sé, ma dell’isolamento, della mancanza di un’efficiente modalità di interazione online, di un coordinamento, che dovrà rimodellarsi attraverso gli obiettivi e la flessibilità.

Il vero smart working è quello che dà al dipendente maggiore flessibilità su come e dove svolgere il proprio lavoro, abbinato a una maggiore autonomia e responsabilizzazione dei risultati.

È quello che ha come obiettivo quello di rendere una persona più coinvolta nel suo lavoro e più responsabilizzata, attraverso il coordinamento, la collaborazione, l’autonomia e la fiducia, e al contempo di favorire una maggiore conciliazione tra vita privata e lavoro, lasciando spazio all’emergere della disciplina personale, che permette a ognuno di noi mettere dei paletti al lavoro e al diritto alla disconnessione e alla non perenne reperibilità.

Dati gli innegabili vantaggi di questa organizzazione lavorativa, e dato che lo smart working non finirà, la sfida dei prossimi mesi dovrà essere quella di (ri)scoprire gli autentici principi di una organizzazione “smart”: autonomia, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti personali, flessibilità come scambio, rispondendo alla turbolenza e alla complessità di questo periodo, con impegno, ma anche, come direbbe Italo Calvino, nelle sue Lezioni Americane, con la leggerezza organizzativa che privilegia l’intelligenza, la creatività e le idee.

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