Debito pubblico e PIL, ecco perché ci riguarda

pil e debito pubblico
pil e debito pubblico

Il Deficit Pubblico, nella contabilità di Stato, rappresenta la situazione che si verifica quando le uscite superano le entrate. Semplice.

Il Debito Pubblico significa quanto deficit uno Stato ha accumulato nei confronti di altri soggetti economici che gli hanno prestato denaro sottoscrivendo i suoi titoli, cui si aggiunge la parte per gli interessi. Il PIL (Prodotto Interno Lordo), invece, è un valore che trova una diversità di definizioni secondo i singoli esperti: chi parla di attività produttive, chi di mercato aggregato di tutte le merci finite e di tutti i servizi prodotti; per questi ultimi alcuni insistono sulla valorizzazione in un processo di scambio, la cessione, cioè, di un bene o servizio in un accordo di compravendita. Comunque la mettiamo, il PIL è un indice dell’andamento economico, ancora meglio è un misuratore di ricchezza.

Il rapporto tra queste tre cuspidi (Deficit Pubblico, Debito Pubblico e PIL) è il fulcro delle scelte economiche di un governo e rappresenta le linee fondamentali del futuro di un Paese; più semplicemente, e quotidianamente, riproduce il braccio di ferro tra le opposte decisioni di politica economica e i modi per fronteggiare l’occhiuta attenzione delle autorità europee. I principali parametri di Maastricht (1992) avevano stabilito una soglia massima del Deficit Pubblico di un Paese al 3% del PIL e una soglia massima per il Debito Pubblico al disotto del 60% del PIL.

Nel 2017 (solo per fermarsi all’ultimo anno) pochissimi sono stati i Paesi considerati virtuosi, per lo più i piccoli, esprimenti realtà di modeste dimensioni. Gli altri non ne sono stati capaci. Neanche la grande Germania che, più volte in precedenza, ha violato i trattati senza conseguenze. La Germania però ha un rapporto Debito/ PIL del 64,10%, noi del 131,80% (debito in milioni di euro: 2.263.479; PIL 1.724.954). Questi i dati, queste le regole, questi i fatti.

Debito e austerità

Al di là (o al di qua) di maggioranze parlamentari e governi, il debito pubblico è sempre al centro dei nostri guai, con caratteristiche completamente distanti da qualsiasi altro tipo di debito. Questa parola, infatti, ha sempre significato nel mondo imprenditoriale il sano esercizio di cassa (inteso come ricorso al credito per affidamento del capitale circolante) oppure un impegno a medio/lungo termine, entrambi finalizzati a investimenti produttivi, reddituali o di struttura.

Nel caso del nostro Paese rappresenta, invece, un fattore di sterilità capace di produrre una costante crescita delle disuguaglianze, un accrescimento dello spread sociale, uno squilibrato possesso della ricchezza e dei valori immobiliari. Questo perché la strada finora scelta è stata quella dell’austerità contabile, priva di qualsiasi politica espansiva. D’altra parte l’Italia negli ultimi sette anni (dalla crisi finanziaria/parlamentare del 2011), nonostante le sue incapacità e i suoi fardelli storici di sprechi e insufficienze, ha eseguito le indicazioni, i calcoli, le impostazioni strutturali fissate dai vari uffici dell’Unione Europea, proprio secondo la strada della sunnominata austerità contabile. Risultato: un Paese asfittico, un’economia languente, una malinconica (e rabbiosa) rassegnazione per il futuro.

Noi e gli altri

Gli strumenti di finanza pubblica a disposizione delle scelte di governo, qualunque esso sia, sono: aumento “violento” del deficit, con il principale strumento – tanto caro in campagna elettorale – del taglio delle tasse, vero e proprio shock fiscale a favore d’imprese e famiglie; aumento della spesa e quindi del debito, con l’incognita incombente se gli investitori vogliano ancora e fino a quando finanziare senza limiti i fabbisogni del nostro Paese.

Gli Stati Uniti d’America sono molto citati in questo periodo per il sontuoso piano espansivo messo in atto dal loro presidente, iniziato con l’alleggerimento del peso fiscale per le imprese (dal 35% al 21%) che ha avuto come immediata conseguenza l’impennata del disavanzo federale. “Ma gli Stati Uniti se lo possono permettere – spiega Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani – il dollaro è una valuta di riserva mondiale, tutto il mondo preferisce investire in titoli di stato americani. Noi non abbiamo questo vantaggio. Dunque quando sale il Debito Pubblico USA, il loro spread non cresce mentre il contrario avviene quando sale il nostro”.

Difficile capire come da noi una manovra espansiva scioccante (che rappresenterebbe un altrettanto scioccante braccio di ferro con l’Europa) possa non compromettere il debito pubblico, con l’aumento del tasso di emissione dei nuovi titoli. Questo, infatti, avrebbe, al termine della filiera di avvenimenti traumatizzanti, due conseguenze primarie: la diminuzione della solidità patrimoniale delle banche (che hanno in portafoglio titoli più vecchi che varrebbero meno) e il riversamento del problema sui soci (per una nuova capitalizzazione) e, di conseguenza, su famiglie e imprese per un aumento del tasso di finanziamenti e prestiti da parte delle Banche stesse.

Una manovra espansiva, dati questi termini, potrebbe pertanto risultare soffocante. Ed è questo il monito dell’Europa all’Italia, accompagnato dalla scarsa volontà di condividere il peso e l’incognita di una crescita più ipotetica che reale che sta solo nella testa e negli slogan dei nostri governanti (e forse nemmeno nella loro), di cui all’orizzonte si vede solo l’enorme debito. Politicamente, anche se non è questo di cui ci occupiamo sul nostro portale, occorrerebbe pensare a un’altra strada, ugualmente dura magari, ma più diplomatica, oggetto di trattative, di scambi, di convenienze e di scelte che favoriscano non solo noi ma anche altri Paesi. Concordare con le autorità europee soprattutto due cose: la sospensione momentanea del pareggio di bilancio in tutta l’eurozona; l’esclusione del calcolo del deficit dagli stanziamenti necessari a finanziare misure di sostegno al reddito. Come corollario il governo italiano dovrebbe avere anche la libertà di procedere alla revisione del debito, depurandolo delle cifre imposte dalla speculazione finanziaria e dal peso degli interessi.

I riflessi sull’economia reale

Al momento circola un certo scetticismo tra gli imprenditori circa gli effetti concreti che potranno sorgere dalle decisioni del nostro governo e dalle sue trattative con l’Europa, come se fosse giudicata ancora lontana quella spallata strutturale in grado di risanare la palude stagnante dell’oggi.

Prime, primissime conseguenze sono: la difficoltà di attrarre investimenti dall’estero, perché gli operatori stranieri potrebbero dimostrarsi sempre meno disposti a mettere soldi in un Paese così gravato da problemi politico/finanziari (un rischio per i piani di sviluppo dei noleggiatori stranieri in Italia); l’ulteriore riduzione, da parte delle famiglie, del proprio budget di spesa, stabilito secondo criteri sempre più prudenziali in modo tale da restringere la disponibilità al consumo ancora di più nei prossimi mesi.

Ed ecco che ci siamo avvicinati alla parola che magicamente attraversa e percorre (ha attraversato e percorso) le strategie governative e tutte le iniziative e progettualità imprenditoriali: competitività, cioè come produrre ricchezza. Nel quadro difficile appena descritto, dobbiamo quindi prendere in considerazione, come unico spiraglio di luce, l’attualità delle PMI, da sempre spina dorsale portante della nostra economia, capaci di quell’innovazione profonda e di come saper creare valore da cui le scelte governative avrebbero molto da imparare.

Le PMI reggono le sorti dell’economia

L’ambiente, il sociale, le soluzioni tecnologiche avanzate, il risparmio: questi sono gli elementi maggiormente evidenziabili dalla nostra ricerca. Il “SIF-Strategy Innovation Forum” – tenutosi lo scorso ottobre a Ca’ Foscari a Venezia – ha coinvolto gli imprenditori, i manager e i professionisti più desiderosi di offrire un contributo circa i nuovi percorsi in grado di assicurare successo economico insieme a sostenibilità ed equità.

Sono stati presentati dati, resoconti e documenti sui quali, purtroppo, non possiamo dilungarci, ma che ci consentono di trarre ugualmente una considerazione: la sostenibilità è la prerogativa (per oltre il 50%) delle piccole e medie imprese in grado di ridefinire le proprie strategie territoriali per la ricostruzione di un patto sociale, unico progetto che avrebbe la possibilità di avere successo nel lungo periodo e di “pensare” concretamente a una crescita sostenibile per la comunità. Vogliamo accennare, per insistere sulla possibile progettualità imprenditoriale che tocca anche il settore del noleggio in senso più ampio, all’enorme orizzonte ancora aperto dell’Intelligenza Artificiale e delle sue immense possibilità di utilizzo e realizzazione.

E’ davvero un percorso in continua corsa evolutiva, di cui nessuno può prevedere gli sviluppi futuri, ma è facile immaginare senz’altro un ritorno immediato per l’impresa che si addentra in questa logica di investimenti. Se Intelligenza Artificiale significa un sistema che con la sua intelligenza, assomigli alla razionalità del comportamento umano, replicandone funzioni e azioni, allora possiamo parlare non solo di automobili guidate da software capaci di rispettare il codice della strada, ma anche di sistemi in grado di fare agire gli oggetti tra loro (IOT, Internet of Thing), di archivi e collezioni di dati che possono dialogare tra loro nel campo della sanità, di processi industriali che recuperino più facilmente risorse da restituire come ricchezza. Solo alcuni pochissimi esempi mirati a indicare l’adozione di sistemi che aumentino l’efficienza e produttività, stimolando nuove competizioni e rendendo il lavoro meno faticoso e più sicuro.

L’esempio del car sharing aziendale

Chiudiamo con una soluzione di attualità che è insieme tra le più vecchie e le più innovative in un settore a noi vicino: il car sharing. L’idea, nata fin dal secondo dopoguerra, di condividere i veicoli e la manutenzione degli stessi, ha avuto nel corso del tempo trasformazioni e approfondimenti sempre più ricercati, e una diffusione che ha modificato il comportamento delle persone nell’uso dell’auto, soprattutto grazie agli sviluppi della tecnologia.

Ora il car sharing può occupare anche l’ambito aziendale, con la condivisione dell’automobile da parte dei dipendenti e collaboratori che l’hanno a disposizione sia nello svolgimento di missioni (corporate car sharing) sia come benefit, con numerosi vantaggi: riduzione dei costi, diminuzione dei tempi di sosta nei parcheggi, ottimizzazione dell’uso, eccetera. L’ultima soluzione è data dall’integrazione tra il corporate con il car sharing e la presenza di una flotta aziendale: il noleggio di veicoli destinati in fringe benefit e il corporate sull’auto in pool per chi non ha quella aziendale. Sono iniziative, progettualità, innovazioni frutto di un pensiero sempre rivolto al futuro, oltre che alla risoluzione dei problemi del presente.

Non sarebbe male che anche un governo, un giorno, s’ispirasse a questo modus operandi.

Tag dell'articolo: scenario economico

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