Dunque siamo in crisi. Cosa è meglio fare in questi casi? Rendiamoci conto, intanto, che questa parola, crisi, come tantissime altre, deriva dal greco, “krisis”, che significa scelta, decisione; cioè qualcosa che in occasione di eventi determinanti nella storia dell’uomo ha sollecitato tutti a prendersi la responsabilità di tentare nuove strade, decidere strategie diverse, ipotizzare inediti progetti di vita. Avremmo dovuto però usare il condizionale perché questa responsabile spinta ad agire, più volte richiesta dagli avvenimenti, non è stata sempre recepita da chi si trovava nella posizione adatta a farlo. Prendiamo la crisi dell’auto, ad esempio, una delle più annunciate della storia, da tutti, meno che da coloro che le fabbricano, le auto. Una crisi bifronte: da un lato un mezzo che, con la dovuta differenza di materiali, design ed elettronica, è lo stesso di cent’anni fa e che nelle nostre città ha gli stessi tempi di percorrenza di allora. Dall’altro, collegato a questo vecchio pezzo di ferro, è il problema del carburante; già antecedentemente alla prima guerra mondiale (1914-1918) il fabbisogno di benzina per auto era talmente cresciuto che i padroni del mondo si posero il problema di estrarre più petrolio e raffinarlo in maggiori quantità e di trovare allo stesso petrolio delle valide alternative.
Poiché nulla di concreto avvenne per più di mezzo secolo, gli avvenimenti chiamarono tutti alla più stringente richiesta di responsabilità di quegli anni: lo shock petrolifero del 1973. Ricordiamo che l’Opec prese il controllo della produzione e del prezzo del greggio, le cui quotazioni quadruplicarono causando delle difficoltà di approvvigionamento che si abbatterono sul pianeta come un cataclisma: lunghissime file ai distributori, robusti piani di risparmio energetico, l’uso della macchina visto come il demonio, addirittura proibito in Germania, la domenica con autostrade deserte. Da noi, come sempre, la solita via di mezzo: sì qualche week end è stato più duro, timide targhe alterne, code agli autobus, taxi spariti, i programmi serali della TV anticipati di una mezz’ora, i night club chiusi alle due, le ragazze di Via Veneto a letto presto. Ricordiamo anche che l’Opec non era unita: i sauditi entrarono nell’orbita statunitense grazie agli enormi interventi strutturali delle aziende USA in Arabia, pagati con i petrodollari; a ciò si aggiunse l’impegno della casa regnante saudita ad acquistare i bond americani i cui interessi sarebbero stati usati per mantenere la difesa militare nei confronti degli altri Paesi “fratelli” che avevano capito l’antifona e cominciavano ad agitarsi.
Una nuova coscienza
Una cosa però fu sentita, e prepotentemente, da tutti: la necessità di avere una coscienza nuova che tenesse conto che la festa era finita, che le risorse energetiche erano limitate e che occorreva affrontare subito almeno due enormi problemi: come utilizzare, e se farlo, l’energia atomica e come adoperarsi per il rispetto dell’equilibrio ecoambientale, pur mantenendo integri gli sforzi di un ammodernamento industriale e imprenditoriale in genere.
Collegata a tutto questo cominciò a farsi strada in quegli anni l’ipotesi di un diverso rapporto tra etica e attività d’impresa, il cui profitto non era distaccato dalla considerazione del tessuto sociale, dal rispetto per le persone, per chi lavora, per la famiglia. Quest’ottica “rivoluzionaria” che metteva dalla stessa parte lo sviluppo, l’innovazione, la produzione dell’utile, la convivenza sociale e il rispetto dell’ambiente, fu teorizzata proprio da un economista italiano, Giancarlo Pallavicini, che pensò per primo alla valutazione dell’impresa utilizzando anche parametri sociali. Tralasciamo l’influenza degli studi del nostro ricercatore sui saggi di Robert Freemann (1984) circa le responsabilità sociali dell’impresa e sul libro verde della Commissione Europea (2001), per sottolineare una cosa: in quel periodo così critico in cui venivano ridimensionati meccanismi di vita a cui ci eravamo abituati e pure i livelli di benessere faticosamente conquistati, ci fu una gran voglia di riorganizzare e di reimpostare le strutture economiche e le nostre giornate o, quantomeno, di mettersi all’ascolto delle nuove esigenze che stavano affiorando un po’ ovunque.
Come mai prima, anche oggi la gravità del momento ha messo in crisi da subito proprio quella responsabilità sociale accolta da tante aziende e che ora è resa vana, spazzata via proprio sul piano della possibile, reale sostenibilità. Come un si salvi chi può che non rispetta né feriti, né prigionieri. Certo, la differenza da quel periodo è sostanziale. Allora la crisi fu concreta, tangibile, mossa da problemi che si toccavano con mano e si capivano: petrolio, benzina, territori, guerre. Oggi le conseguenze sono ugualmente devastanti ma molto meno individuabili le motivazioni: il conflitto tra economisti monetaristi e keynesiani, la carta straccia prodotta dalla mefitica bolla speculativa fatta di tossicità finanziaria e immobiliare non rappresentano un nemico reale contro cui battersi facilmente, ma un’idra fumosa e invisibile capace di succhiare soldi, certezze e futuro. La salvezza è nel concreto; partiamo da una frase proveniente dal carteggio Pirelli e citata spesso in questi giorni: “Viviamo in una società di cui si conosce il prezzo ma non il valore delle cose”. Ecco, il valore di ciò che si tocca fa sì che gli ingegneri continuino a essere richiesti dall’industria, così come il personale altamente formato nei servizi ai consumatori; il risultato è la salute dimostrata proprio in questo periodo da società di ingegneria e di impiantistica in tutto il mondo. Partiamo anche dall’accorata esortazione di Ermanno Olmi col suo documentario Terra Madre: “E’ finita la baldanzosa euforia della ricchezza facile; coltivare i campi è stata la condanna per l’uomo cacciato dall’Eden. Tornare a questa attività è un modo per riconquistarlo”.
L’imprenditore uomo
Riesce difficile concepire come potrà essere la figura dell’imprenditore quando la tempesta sarà passata, perché è difficile ipotizzare quale tipo di “uomo” avremo, capace di dare vita a questo imprenditore. Dobbiamo pensare a un diverso modo di vivere, questo è certo, che usi il vecchio e il nuovo in un’altra dimensione e che vada oltre tutti i più incisivi interventi sull’economia reale e sull’occupazione. Intanto cerchiamo di mettere ordine per tirare fuori un filo conduttore, altrimenti non se ne esce: alcuni citano gli scritti di Freud quando, come medico austrungarico sul fronte della prima guerra mondiale, constatava che, in chi rischiava la vita sotto le bombe, erano sparite le nevrosi. Per dire che le difficoltà di un periodo come questo sono positive perché abbattono le frustrazioni e le alienazioni del mal di vivere. Altri, invece, sostengono che la depressione avrà una diffusione terribile, seconda solo alle cardiopatie. Il Presidente Obama stanzia 170 miliardi di dollari per il salvataggio di AIG, praticamente al collasso e gli amministratori del gruppo distribuiscono a dirigenti e trader bonus e premi (sì, premi, a pioggia, per oltre 1 miliardo di dollari).
Tutti concordi in occidente per i sostegni ingenti alle fabbriche di automobili, ma le borse hanno risposto picche e sono stati chiesti a GM negli USA e a OPEL in Germania piani di ristrutturazione credibili per scongiurare la possibilità reale dello stato di insolvenza. Il governo italiano ha preparato un provvedimento legislativo che toglie ogni freno, o quasi, all’attività edilizia; mentre perfino le stesse associazioni dei costruttori, da sempre reclamanti meno regole e più libertà (a dispetto delle bocche riempite di ridondanti quanto vuote affermazioni sulla necessità di maggiore sicurezza), hanno espresso più di un distinguo nei confronti di una liberalizzazione che si prospetterebbe davvero “selvaggia”.
Potremmo continuare all’infinito nel citare dichiarazioni, ipotesi e studi uguali e contrari che in Italia e all’estero tentano di fornire soluzioni alla caduta verticale e contemporaneamente constatare che ogni tentativo fatto per affrontare e risolvere sembra faccia andare le cose ancor peggio. Respiriamo così un’atmosfera di abbattimento, di triste e trista rassegnazione che permette cose un tempo impensabili e di cui rendiamo conto non per suscitare facili battute ma per dire che l’avvitamento cupo che ci tira giù si manifesta in tanti modi e ha brutti compagni di viaggio: vogliono fare cambiare volto alle strade del vizio di Londra, New York e Amsterdam, tanto per cominciare. A Londra stanno “bonificando” il quartiere di Soho, sostituendo i sexy-shop, i night-club, i porno-theatre con uffici (chissà di che cosa si occuperanno?), algidi supermarket e ristoranti (chissà chi vi spenderà cosa?). Lo stesso progetto per la 42ma strada di New York, mentre le pittoresche ragazze di Amsterdam stanno abbandonando le loro vetrine. Forse siamo diventati matti all’improvviso. Abbiamo distrutto l’economia e il sociale a colpi di carta straccia, non riusciamo a risolvere il minimo problema e diamo la caccia alle streghe.
Verso un cambiamento reale
Pensiamo piuttosto al concreto: in fila poche cose serie, solide, di qualità. Partiamo da quello che opportunamente ha detto alla Camera il ministro Sacconi un paio di mesi fa, quando ha esortato i giovani a non fossilizzarsi su lauree dalla forte connotazione culturale che però “non dant panem”, ma piuttosto a mettersi in gioco, magari accettando anche lavori semplici, utili, non rispondenti agli studi fatti.
Ridimensionata la crisi, conterà anche questo nel curriculum da presentare per dar corpo ai sogni: essere stati capaci di rimboccarsi le maniche quando c’era bisogno. A Roma, per esempio, a conferma che la crisi la si può combattere con il lavoro vero, lontano dall’economia della finanza, nel 2008 sono state costituite 41 cooperative (63 nel Lazio, terza regione dopo Campania e Sicilia). Colui che perde il lavoro o non lo ha mai trovato può diventare imprenditore di se stesso nell’offerta di beni e servizi a prezzi competitivi, nell’assistenza sociale, nelle cure domiciliari di chi non è in grado di uscire, nell’allevamento sui terreni concessi dal demanio, nella costruzione in economia di abitazioni in zone periferiche molto meno costose, tutto nella logica di un lavoro fianco a fianco, coeso, radicato nel territorio, su cui la grande organizzazione multinazionale sorvola, ma è profondamente utile alla comunità sociale.
E poi la qualità, la cosa più concreta di tutte, l’eccellenza del prodotto e dei servizi come vetrina del sistema Italia: le calzature, il vino, le tecniche d’avanguardia già in nostro possesso per l’energia rinnovabile, le aziende che in Toscana trattano il miglior cuoio del mondo e fabbricano fucili da caccia in Lombardia. E il noleggio offerto in maniera scientifica e non approssimativa. Tutto un mondo di grande valore che l’inettitudine politica e aggregativa hanno disatteso e che deve trarre nuova consapevolezza di sé dalla propria forza ancora esistente, senza dimenticare le parole illuminanti di Luigi Einaudi : “Gli Italiani sono un popolo che lavora, produce e risparmia, nonostante tutto quello che facciamo per impedirglielo”.