Il surge pricing, ossia lo speciale algoritmo di calcolo delle tariffe con cui Uber regola i prezzi del proprio servizio di ride sharing non solo ha fatto storcere il naso a molti clienti, ma ha anche attirato le attenzioni dell’Economist, e in particolare di una rubrica molto attenta a come i principi della micro e macroeconomia si applicano al mondo reale delle aziende e dei consumatori.
Il tema è già stato affrontato in precedenza sulle pagine di questo blog: Uber nei periodi di punta (ad esempio nelle ore notturne, o in corrispondenza delle feste) alza moltissimo le tariffe del proprio servizio, per incoraggiare l’uscita in strada di molte auto e ridurre la domanda dei propri servizi, in modo tale che i clienti abbiano sempre un’auto a disposizione, anche se questo vuol dire pagare fino a sette volte la tariffa standard delle ore normali.
L’articolo dell’Economist parte da alcune considerazioni molto semplici. Il mercato locale dei taxi dovrebbe essere aperto alla competizione: bastano una macchina e una patente, in teoria, per esercitare l’attività. In pratica però, con licenze dai costi astronomici o con altri meccanismi (esami sulla conoscenza delle strade, diventati ormai anacronistici nell’era dei navigatori satellitari), i mercati dei taxi sono oligopoli collusivi ben controllati.
Uber cerca di scardinare questo sistema con la tecnologia. Le sue tariffe sono in media più basse di quelle dei taxi tradizionali, ma durante i periodi di forte domanda schizzano verso l’alto. Questo fenomeno, noto in campo economico come discriminazione di prezzo, ha attirato le ire dei critici, che lo considerano ingiusto per chi deve pagare più di altri.
Il problema è che anche un sistema di tariffe fisse lede alcuni clienti, solo in modo meno visibile della discriminazione di prezzo. Quando chi offre il servizio usa un prezzo solo, ha infatti due scelte: tenerlo basso o alto. Nel primo caso, farà aumentare la domanda, ma lascerà sul piatto dei profitti, offrendo un prezzo basso anche a clienti che avrebbero pagato di più (nel caso dei taxi, ad esempio, gli uomini d’affari). Nel secondo caso, che è poi quello più diffuso, razionerà la propria offerta in modo da “spremere” il prezzo piu alto possibile da chi può permetterselo, lasciando meno offerta per chi non può pagare prezzi più elevati.
Uber cerca di cambiare la situazione, in un modo particolare: come molte piattaforme tipiche dell’era informatica, mette in contatto la domanda con l’offerta, e si tiene una percentuale (il 20%) solo quando questo scambio di servizi avviene davvero. Un po’ come avviene su eBay, dove si incontrano compratori e venditori.
Per massimizzare il numero di transazioni (ossia di passaggi in auto), Uber deve quindi favorire non solo la crescita della domanda, ma anche quella dell’offerta. E in alcuni momenti (di notte, l’ultimo dell’anno, a Natale e così via) c’è solo un modo per far uscire in strada più vetture: alzare le tariffe. E sembra che in effetti il meccanismo stia funzionando, almeno in città come San Francisco.
Il problema è un altro
Secondo l’Economist non è quindi da mettere in discussione il modello di pricing di Uber: con l’aumento delle tariffe si dovrebbe col tempo raggiungere un equilibrio in cui domanda e offerta di passaggi in auto saranno allineate.
Il vero problema è invece la commissione percentuale che Uber chiede a distorcere il mercato, perchė crea una sorta di cuneo che si inserisce tra le somme che passeggeri e autisti sono disposti a scambiarsi.
Supponiamo che in orario normale i passeggeri siano disposti a pagare 20 euro e gli autisti a guidare per 15 euro. Anche considerando il 20% per Uber (4 euro), il sistema funziona. Supponiamo invece di essere in un orario più sfortunato (mezzanotte di sabato sera) in cui i passeggeri sono disposti a spendere 100 euro, e i guidatori a uscire per 90. In questo caso la commissione di Uber mette fuori gioco alcuni guidatori: una volta dedotti 20 euro di commissione per Uber, agli autisti ne restano 80, una somma per cui potrebbero non aver voglia di uscire, proprio nel momento in cui invece sarebbe più necessario che lo facessero.
Nonostante quindi le commissioni importanti che Uber si porta a casa con il suo servizio, questo potrebbe non essere il sistema migliore di gestirlo. In un sistema come quello del trasporto con taxi (chiamato tecnicamente mercato a due vie, nel senso che serve due gruppi di soggetti, autisti e passeggeri), occorre infatti massimizzare il numero di partecipanti su entrambi i fronti.
In genere per ottenere questi risultati si impone una quota fissa di adesione al servizio. Uber dovrebbe quindi richiedere il pagamento di una quota fissa agli autisti, anche se questo vorrebbe dire perderne alcuni non disposti a pagarla (al limite si può immaginare in sistema a due o più livelli).
Quindi, secondo l’Economist, Uber può anche mantenere il suo sistema di surge pricing: l’importante sarebbe cambiare il suo modello di remunerazione.