Uber sta affrontando in queste settimane il suo peggiore momento di crisi. Negli USA molti utenti, e ancora più giornalisti e blogger, si sono lamentati dei suoi prezzi nei momenti di picco, ossia quando la domanda per i suoi servizi cresce esponenzialmente, come durante le vacanze o in momenti di crisi meteo (la tempesta polare, per fare un esempio). Il motivo è il suo algoritmo di fissazione dei prezzi, che fissa le tariffe non in modo fisso, ma in base al numero di auto presenti e di passeggeri che usano l’App.
Il problema dei prezzi si va ad aggiungere alle proteste dei tassisti, che in Francia ad esempio sono arrivati ad attaccare fisicamente le macchine del servizio di car sharing.
Della reazione dei servizi tradizionali di trasporto su piazza, e dei tentativi di ergere barriere protezionistiche, abbiamo già parlato piu volte. Le proteste degli utenti sui prezzi del servizio sono invece una novità. I due fenomeni sembrano scollegati tra loro, ma non lo sono.
Entrambi questi problemi derivano direttamente dalla visione strategica di Uber, e dalla sua volontà di non rinunciare in alcun caso all’unico elemento imprescindibile della sua offerta: fornire un servizio di trasporto impeccabile. Uber avrebbe potuto infatti placare abbastanza facilmente le proteste, eliminando l’algoritmo di fissazione del prezzo in funzione della domanda, e ritirandosi dalle città più ostili. Ma così facendo la qualità del suo servizio ne avrebbe risentito in negativo.
Nel caso dei prezzi, un fortissimo aumento nei momenti di maggior domanda serve a ridurre quest’ultima, o ad aumentare l’offerta. Se così non fosse, ci sarebbero da qualche parte dei potenziali utenti che resterebbero senza passaggio in macchina. Secondo il fondatore di Uber, Travis Kalanick, la cattiva pubblicità che ha avuto a New York durante la tempesta polare (quando i prezzi di Uber sono arrivati a essere sette volte maggiori di quelli medi abituali) non sarebbe nulla in confronto a quella che Uber avrebbe ricevuto se non avesse avuto abbastanza macchine in giro. Si sarebbe gridato al fallimento della start-up fino ad allora salutata come il servizio più di moda del momento. Sarebbe stato come avere un prodotto Apple brutto, o una consegna di Amazon che arriva in ritardo o non arriva mai.
Essere inaffidabili avrebbe decretato la fine di Uber, mentre non si trova nessuno in giro che denunci Uber come inaffidabile.
Il ragionamento è analogo quando Uber entra in un nuovo mercato, come la Francia o l’Italia. Uber cerca di parlare con chi fa le leggi e i regolamenti, piuttosto che modificare il suo funzionamento, basato su algoritmi matematici e statistici.
Segnalare alle macchine dotate di App dove andare in funzione del momento, degli eventi (a Milano potrebbe essere il Salone del Mobile, ad esempio) e del traffico, richiede un team di esperti matematici avanzati. Per non complicarsi la vita, Uber parte con il servizio e affronta le beghe legali, perché adattare il proprio algoritmo alle decisioni del municipio di Milano o di Parigi sarebbe troppo costoso (anche se poi nuove variabili da gestire nell’equazione si aggiungono lo stesso: in Francia, ad esempio, una nuova legge impone un tempo di attesa di 15 minuti tra la chiamata e la salita del passeggero).
Questa scelta strategica, per certi versi rigida, può essere interpretata come l’arroganza della giovane start-up che si crede al di sopra delle regole. Ma Uber sa che è meglio ricevere critiche su Twitter, sui giornali o dai tassisti, che avere clienti che aprono l’App e non ci trovano neanche una vettura disponibile.
La prima minaccia è gestibile. La seconda è fatale.