Chi ci segue sa bene che, fin dai suoi albori, abbiamo sempre cercato di evidenziare la crescita e l’affermazione della “sharing economy” in tutti i suoi aspetti, ambiti e riflessi. Ne abbiamo messe in luce le contraddizioni e anche le opportunità. In ogni caso, l’economia condivisa, con la complicità della tecnologia, da anni ha messo in moto un’inarrestabile creatività imprenditoriale trasversale, davvero globale, a vantaggio della quotidianità della gente comune. L’uso di molte App ha semplificato la vita e ridotto i costi di accesso a servizi altrimenti onerosi; pensiamo ad esempio alla mobilità, con l’ascesa mondiale di BlaBlaCar e Uber.
Quando però questa spinta all’innovazione va a pestare i territori dove sopravvivono certi privilegi duri a morire, più da casta che da lobby, le cose si mettono davvero male, soprattutto nel nostro Paese, sempre in prima linea nel gettare una cortina fumogena protezionistica capace di fermare il progresso a vantaggio di categorie fatiscenti che si tramandano, alla faccia dell’antitrust, la gestione monopolistica di intere fette dell’economia. La politica, su tutte (polis, res publica, ricordiamo i significati etimologici…); i notai; i padroncini del trasporto commerciale (abili a insabbiare ogni tentativo di modernizzare la legislazione, compresa la possibilità di noleggiare grossi automezzi).
E ora i tassisti che, con il loro sguaiato sbraitare sono riusciti a muovere i fili del diritto ricavando una sentenza che, almeno da noi, blocca per ora l’App di Uber, riconsegnando alla categoria lauti guadagni in forma di privilegi assoluti. Altro che Expo, altro che spinta alla modernità: l’Italia sembra ormai destinata a un inarrestabile declino, schiava di un sistema soffocante e ormai incancrenito, a ogni livello.
Commentiamo ancora a caldo, a onor del vero, ma la notizia è che il Tribunale di Milano ha disposto il blocco del servizio UberPop su tutto il territorio nazionale, accogliendo il ricorso presentato dalle associazioni di categoria dei tassisti che la accusavano di concorrenza sleale ed eccesso di abusivismo. Al di là delle derive che il servizio aveva preso di recente, Uber si era affermata come uno spiraglio di economia popolare possibile, se non nel generare occupazione, quantomeno nel ridisegnare la mappa (anche dei costi) dei servizi di mobilità, a vantaggio del cittadino comune. La startup di San Francisco aveva forse ecceduto, trasformando chiunque in autista; originariamente Uber offriva servizi di trasporto con auto guidate da autisti professionisti: un passaggio chiave che, in pratica, ha fatto esplodere la App, trasformando un’intuizione in un’azienda che ora vale oltre 40 miliardi di dollari.
A noi piace, invece, restare impantanati in una crisi finanziaria gravissima, che sta per spegnere le sue prime dieci candeline, dopo aver spento tutte le speranze di tornare a livelli di benessere decenti e di lavoro un po’ meno precario. E’ vero che la trasformazione di queste idee in miliardi genera occupazioni incerte, con salari bassissimi e diritti del lavoratore che, di fatto, non esistono. E’ vero che questo movimento economico non è ancora ben intercettato dalle statistiche ufficiali. Ma è innegabile quanto la sharing economy stia modificando tutto il tessuto lavorativo, proprio cercando di dare risposta alla crisi. E’ la legislazione, semmai, che si mostra incapace di stare al passo; è la politica (almeno a certe latitudini) che non è in grado di decifrare e cavalcare questi cambiamenti, forse più sociali che economici.
Ma, se non ora, quand’è che le leggi e i governanti riusciranno a sintonizzarsi sulla vita della gente senza ricorrere a sentenze assurde per bloccare un progresso ormai inarrestabile?