Opentable è nato tanti anni fa, dalla frustrazione di Chuck Templeton: perché, si è chiesto, posso prenotare online un posto su un volo aereo, ma non in un ristorante? Per questo Templeton il servizio se l’è fatto in casa, o meglio, nella sua città, San Francisco. E ha faticato non poco, dato che ha dovuto coinvolgere i ristoranti uno per uno, spesso trovando esercenti privi di connessione a Internet (erano gli USA del 1998, un momento storico e uno scenario che ricalca in questo senso l’Italia di oggi).
Dopo 14 anni, Opentable ora lavora in Nord America, in Germania, Giappone e Inghilterra. I ristoratori pagano una quota di 200 dollari al mese più una piccola quota per ogni cliente. Nel primo semestre 2012 l’azienda ha fatturato 79 milioni di dollari, più del doppio di quanto fatturava tre anni prima.
La storia di Opentable mostra che i servizi attivi a livello locale esistono da anni. Ma la diffusione degli smartphone e di altre tipologie di computer connessi a Internet ha fatto nascere, specialmente negli USA, una serie lunghissima di servizi localizzati, ossia basati sull’erogazione di informazioni in base alla posizione dell’utente. Secondo il suo CEO, Matt Roberts, il 28% delle prenotazioni viene effettuata tramite smartphone.
Uno, due, tre modelli di business
I servizi localizzati possono avere tre modelli di business. Nel primo l’operatore offre essenzialmente servizi informativi, come avviene per le versioni mobili delle Pagine Gialle. Nel secondo un intermediario mette in contatto la domanda con l’offerta di servizi, trattenendo una percentuale. Questo è il modello della stessa OpenTable. Il terzo, abbastanza simile, è quello dei siti come Groupon, che vendono offerte speciali di attività locali.
Nel caso dei servizi con intermediari rientrano quelli legati alla mobilità locale e al car sharing. Uber, anch’esso nato a San Francisco, ora lavora anche a Boston, Chicago e Toronto. Hailo, una start-up di Londra che ha tra i suoi fondatori anche alcuni guidatori dei suoi famosi taxi neri, opera anche a Dublino ed è concorrente di Uber a Boston e Toronto. Entrambi, nel loro modello di business, mettono a disposizione di chi cerca un taxi una App per smartphone che mostra la posizione di quello libero più vicino e il tempo di attesa. Ma entrambi procurano interessanti benefici anche a chi offre i servizi: secondo Hailo a Londra i tassisti spendono metà del loro tempo lavorativo in attesa o alla ricerca di clienti. E ogni posto vuoto e ogni minuto passato senza un cliente, nel settore dei servizi (tassisti, ristoranti, alberghi, parrucchieri, autonoleggi e così via) costituiscono una perdita non più recuperabile.
Una variazione sul tema dell’incontro tra domanda e offerta è quello del consumo condiviso, o consumo collaborativo. Anche in questo caso beni o servizi che altrimenti resterebbero inutilizzati vengono messi a disposizione della domanda, ma in questo caso, invece che essere servizi di imprese, si tratta di un’offerta di privati. Senza il consumo condiviso, molto probabilmente questa offerta non sarebbe sul mercato.
Questa è l’idea alla base di servizi come l’americana Zimride, la francese BlablaCar e la tedesca Carpooling.com: tutti servizi che connettono guidatori e passeggeri che vogliono viaggiare sugli stessi percorsi. L’esempio attualmente più famoso è quasi certamente Airbnb, il servizio con cui si possono condividere case, appartamenti o stanze. Anche Airbnb si è dotato della sua App, che consente di chiedere se ci sono stanze a disposizione non appena si arriva in una certa città.
La prossima settimana vedremo alcuni elementi di valutazione economica e strategica che decreteranno le possibilità di successo di questi servizi.