Quanto vale una vita umana?

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Sicurezza

Quanto vale una vita umana?

Può valere la fretta di finire un lavoro? O la fretta di finalizzare un contratto?

Il dolore inflitto alle famiglie che perdono un pezzo del loro cuore, agli amici che perdono un confidente, alle mogli e fidanzate che perdono un compagno di vita…quanto può valere?

Forse ancora non ce ne rendiamo conto. E sì, dico “rendiamo”, perché siamo tutti coinvolti.

È questa la prima considerazione che, a caldo, ho maturato dopo la partecipazione alla seconda edizione di IPAF ANCH’IO, lo scorso 26 Maggio a Bologna.

Ma il vero problema è: perché non ce ne rendiamo conto?

Occhio non vede…

In Italia viaggiamo su ritmi di 4 morti sul luogo di lavoro al giorno. Al giorno.

Eppure, nessuno parla. O meglio, qualcuno parla solo quando l’accaduto sembra essere confezionato apposta per una notizia al telegiornale, di quelle che vengono registrate, raccontate e mostrate con toni drammatici, su cui è impossibile non alzare la testa e indignarsi.

Quindi sì, qualcuno parla. Ma lo fa pure male.

Sembra quasi che gli occhi non vogliano vedere la realtà delle cose, come se alcune vite importassero più di altre. Come se spettacolarizzare un incidente sul lavoro fosse sufficiente a sollevare l’opinione comune, mobilitandola per perseguire una causa che evidentemente non sa cogliere.

So che si tratta di un’affermazione molto forte, ma in queste ultime settimane ho avuto modo di pensarci in maniera più ragionata. Mi sono guardata intorno, ho studiato le persone a me più vicine, le esperienze che hanno avuto, il modo con cui affrontano questo tipo di notizie.

Ciò che mi è parso subito chiaro è che sembra non esistere la paura di perdere la vita sul proprio luogo di lavoro. Attività che vengono fatte quotidianamente, in modo abitudinario, chissà da quanti anni. Una sicurezza quasi invidiabile, che li porta a concludere il proprio lavoro quasi come se fosse un’attività automatica, scordandosi del contesto.

Quel contesto che, però, può essere letale. È come quando si guida un’auto: basta un secondo, forse addirittura meno, per far crollare qualsiasi cosa.

Eppure, nel corso del tempo abbiamo adottato un comportamento così normale e ordinario per noi, che ora non riusciamo a comprendere come le tragedie raccontate al telegiornale non siano altro che la punta dell’iceberg, in un momento in cui i numeri sembrano non accennare ad arrestarsi.

Ma soprattutto, non ci rendiamo conto che questi stessi numeri potrebbero essere drasticamente ridotti, se solo stessimo più attenti.

…cuore non duole

E non parlo solo di attenzione nei propri confronti. La preoccupazione che possa succedere qualcosa, non deve essere solo rivolta verso se stessi.

Deve essere bilaterale. Deve coinvolgere chi vi sta accanto, chi lavora con voi. Le stesse persone che, come voi, si alzano al mattino consapevoli che svolgeranno per l’ennesima volta un’attività che ormai sanno a memoria, sicuri che qualsiasi sia l’imprevisto della giornata, potranno risolverlo senza problemi.

Ma non esiste soluzione alla morte.

Ecco perché le antenne si devono drizzare anche nei confronti dei vostri collaboratori.

Non indossano il DPI corretto? Avvisateli.
Non stanno utilizzando le piastre di appoggio per la macchina? Ammoniteli.
Non svolgono o non si preoccupano della corretta manutenzione del mezzo? Istruiteli.

A costo di apparire noiosi, arroganti, esagerati. Non c’è nulla di esagerato quando si parla di vite umane.

E se la loro risposta sarà una risata di scherno, una battuta, qualsiasi reazione superficiale al vostro interessamento ricordategli che quella sua mancanza potrebbe distruggere famiglie, compagnie, amici. E che quello stesso comportamento, un giorno, potrebbe essere adottato da loro figlio, da un loro caro, da un loro collega.

Come ha detto Macarena Garcia Oliver, da anni titolare della rivista Movicarga, durante IPAF ANCH’IO, “se la pensano così, significa che non hanno mai perso un figlio in quel modo“.

E, ripensando alle esperienze vissute da me o da persone a me vicine, purtroppo questo è un modo abbastanza comune di vedere le cose.

IPAF ANCH'IO sicurezza

Uno degli speech presentati nel corso della seconda edizione di IPAF ANCH’IO

Aziende (o persone?) senza regolamenti

Mio padre ha sempre ricoperto la figura di preposto alla sicurezza, nel corso della sua carriera lavorativa. Ha sempre avuto grande rispetto per questa tematica, anche al di fuori del lavoro: quando era impegnato in alcuni lavoretti a casa, ci insegnava quello che lui stesso aveva imparato sul lavoro, dicendoci che altrimenti avremmo potuto farci molto male e che non sarebbe sicuramente bastato un cerotto per guarire.

Un modo dolce di dire le cose, del resto io e mia sorella eravamo ancora troppo piccole per capire. Ma allo stesso tempo un insegnamento che ho fatto mio e che ho portato con me in qualsiasi situazione potesse tornarmi utile.

Nella sua esperienza da preposto, anche mio padre ne ha viste di tutti i colori. Lavorava in un’azienda metalmeccanica, di quelle in cui il rumore è sempre assordante per via delle macchine continuamente attive come le presse, per esempio. Di quelle in cui l’odore del ferro che viene lavorato, dopo un po’, ti fa pizzicare il naso. Di quelle che si appoggiano a dei carrelli elevatori per compiere determinate operazioni.

Da piccola non avevo mai fatto caso a questi aspetti. Ricordo solo che la maggior parte dei dipendenti utilizzava quelle che per me erano “delle strane cose nelle orecchie“, che avevo imparato fossero utili per proteggersi dai rumori.

Ma se ripenso a tutto il resto, ho la pelle d’oca. Non starò qui a elencare tutte le cattive abitudini (se così vogliamo chiamarle) che certi operai avevano adottato all’interno dell’azienda, ma vi assicuro che quasi nessuno ha mai adottato un comportamento sicuro, nel vero senso della parola.

Immagino ci sia stato un regolamento di base in azienda, forse ricordo di aver visto qualcosa di affisso a una parete. Così come immagino che per la maggior parte si sia sempre trattato di carta straccia. Però questo mi fa sorgere una domanda: sono le persone a non avere delle regole…o sono le aziende?

Una curiosità che ho approfondito confrontando il lavoro e l’azienda in cui lavorava mio padre, con quella in cui ha lavorato il mio compagno, anche lui preposto alla sicurezza (che ve devo dì, ce li ho tutti in casa…)

Premessa: il lavoro del mio compagno non rientra tra quelli ad alto rischio, non prevede attività per esempio di sollevamento o contatto con sostanze particolari. A dirla tutta, ha lavorato in un centro commerciale. Contesto completamente diverso, me ne rendo conto. Ma un valido esempio del perché mi sono posta la domanda citata poco sopra.

Per farla breve, il negozio all’interno del quale lavorava si trovava in fondo alla galleria di un centro commerciale. Di conseguenza, prima del suo si incontravano altri negozi. Una decina, direi.

Bene. Il regolamento del centro commerciale presupponeva che lui, in quanto preposto, fosse responsabile non solo del proprio negozio e delle persone al suo interno, ma anche di quelli che si trovavano in un raggio di distanza molto breve. In totale, 5 o 6 negozi. Con tanto di dipendenti. E clienti.

Ora, capite perché ho fatto questo confronto? Secondo questo regolamento, un’unica persona avrebbe dovuto essere responsabile di una cosa come una cinquantina di persone (se andava bene). In altre parole, se si fossero verificate due situazioni di pericolo contemporaneamente, avrebbe dovuto avere il dono dell’ubiquità.

Ecco il perché della mia domanda. Da una parte, il regolamento c’era ma non veniva rispettato appieno; dall’altro il regolamento c’era, ma era quanto mai assurdo.

E quindi?

So che vi starete chiedendo dove voglio andare a parare. E siamo giunti alla fine, promesso.

Potremmo discutere in eterno di questo argomento, me ne rendo conto. IPAF ANCH’IO mi ha dato modo di aprire la mente e di interrogarmi davvero su cosa voglia dire sicurezza sul luogo di lavoro. Ma è stata per me anche l’occasione per rendermi conto di quanto ancora ci sia di non detto (o non percepito, forse) in questo ambito.

Forse solo in occasione del meeting di Bologna mi sono davvero resa conto di quanto sia importante il lavoro di IPAF. Di quanto sia profondo, legato in maniera così stretta alle vite umane di ciascun lavoratore. Non che prima non ne avessi colto l’importanza, sia chiaro: ma aver avuto l’occasione di ascoltare il dibattito e le presentazioni di diversi operatori del settore (formatori, giornalisti, manager, …) mi ha aperto gli occhi su quanti siano gli elementi da considerare quando si parla di sicurezza.

Ma anche di quanta ignoranza (in senso buono), disinformazione e poca consapevolezza debbano ancora essere combattute.

La formazione, la comunicazione, l’attenzione sono elementi fondamentali in qualsiasi luogo di lavoro. Così come la tutela, i regolamenti, le normative. Aspetti che dovrebbero essere ovvi, assodati, chiari…e che invece ancora risentono di incertezza da parte di molti degli attori coinvolti.

Ma qui potremmo aprire un altro infinito dibattito.

Invece, in questo momento, mi trovo a dover chiudere questo lungo articolo e a essere io stessa incerta su come terminarlo. Quindi rilancio semplicemente questa domanda, che ormai mi frulla nel cervello da settimane: quanto vale una vita umana?

sicurezza IPAF

L’esposizione di alcune macchine nella location che ha ospitato la seconda edizione di IPAF ANCH’IO

Tag dell'articolo: IPAF, IPAF Anch'io, sicurezza

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