Negli anni d’oro del noleggio in Italia, circa una decina d’anni fa (anche se, a ben guardare, a parte l’automotive i volumi di oggi sono gli stessi di allora), uno dei concetti reiterati per spiegare il gap del nostro Paese rispetto al resto del mondo, era la propensione congenita alla proprietà. Negli ultimi tempi, questa tiritera sembra ormai sullo sfondo. Complice la mobilità internazionale, anche gli italiani si sono evoluti, accogliendo nella propria vita personale l’uso innovativo delle cose, da BlaBlaCar a Uber, dalla sharing economy allo streaming.
A ben guardare però, qualcosa del vecchio retaggio persiste. Quasi l’80 per cento delle famiglie italiane, infatti, vive in una casa di proprietà. Perché? Anche smettendo di leggere questo dato come emblema della nostra secolare capacità di risparmio e assennato investimento, si può cogliere la diffidenza ostile di cui è vittima l’affitto in questo Paese. Perché una politica pubblica a favore degli affitti è impopolare e destinata al fallimento e la proprietà sembra mantenere un vantaggio ineliminabile sul noleggio, anche tra imprenditori, ossia tra chi investe in progetti e non in beni, che sono sempre strumentali.
Un pregiudizio con radici profonde
La casa è una rendita passiva e quella che abiti è tutto fuorché un investimento. Se facciamo sacrifici per possedere una casa in proprietà, è senza dubbio per effetto di una mentalità legata a una cultura contadina da cui non ci siamo ancora affrancati. Nelle società contadine, i beni in proprietà sono gli ancoraggi stabili di una condizione di vita e lavoro esposta: alla grandinata che manda in malora il raccolto, come all’arbitrio onnipotente del padrone latifondista. Il sistema di vita rurale non spinge all’iniziativa, rende, invece, soggetti assistiti, sotto tutela, bisognosi di punti di riferimento, che sono spesso fuori di sé: la proprietà, la casa. Questi beni minano alle fondamenta ogni progetto su di sé, essendo forme di schiavitù, debiti perenni mai estinguibili. Anche nei casi più virtuosi, l’uso del bene resta legato più alla costruzione di certezze che non all’investimento. L’Italia rimane un Paese in cui si rischia poco, e lo si riscontra nelle scelte pubbliche dove l’investimento forte non è nella formazione e nel lavoro, ma nei servizi di protezione e tutela (anche se l’Europa ci ha costretto da tempo a mettere mano col “machete” a pensioni e la sanità). La globalizzazione è però arrivata, persino in maniera dirompente; forse non l’abbiamo del tutto digerita, ma stiamo imparando a usarla.
Il mondo imprenditoriale, cioè gli interlocutori del noleggio, si trascinano questo retaggio, trovando terreno fertile nella scarsa capacità dei noleggiatori di offrire argomentazioni a un livello più alto. L’investimento sulla produzione è quasi sempre un investimento sulla macchina, sul dispositivo che serve per produrre. Prenderlo in affitto, specie sulle macchine a forte intensità di capitale, segnerebbe il passaggio dalla stabilizzazione al progetto, e alla professione. Il modello, invece, resta la proprietà del bene da usare finché funziona, senza chiedersi come farlo funzionare diversamente e meglio. Il settore dell’edilizia, che ha pochissime occasioni per confrontarsi con il mercato internazionale, è quello che patisce maggiormente la mancata innovazione nelle tecniche costruttive, nei materiali, nello studio dello spazio abitativo. Le nostre case s’ispirano a un modello elaborato negli anni ’40 e ’50. Non abbiamo spazi dove poter lavorare e vivere, e andiamo a cercarli nei loft, soluzioni importate di peso, e costosissime. O nei più moderni coworking. La soluzione di una casa-ufficio smette di essere economica, diventa il pretesto per cavalcare una tendenza, essere alla moda, e non, invece, funzionale.
Investire nel parco macchine a noleggio, piuttosto che in proprietà, è quindi un fatto prima di tutto culturale. La distinzione, più che tra proprietà e noleggio, va posta però tra rendita attiva o passiva. Sono convinto che il migliore investimento sia quello sulla professione, che è sempre una rendita attiva. Chi noleggia un mezzo o un’attrezzatura poi abita in una casa di proprietà. Dove ha scelto di investire le sue risorse, che cosa ha in proprietà e cosa in affitto? Qual è il bene strumentale, e a che cosa? Quale il bene finale?
Si noleggiano le cose che si ritiene siano strumentali, funzionali, temporanee, perché altro è il progetto da stabilizzare. Questo è l’elemento chiave che, a un livello approfondito, ne contiene molti altri: l’efficienza, l’economicità, la gratificazione, per esempio. E non diventano, queste, le argomentazioni da mettere in campo per smantellare la cultura radicata verso la proprietà delle cose?