I risultati di un recente sondaggio condotto da Rental Blog presso alcune aziende coinvolte a vario titolo nel noleggio mettono in evidenza l’insicurezza con cui le imprese stanno affrontando questi primi mesi del 2019. Anche se si vorrebbe evitare di dare giudizi di tipo politico, che peraltro non ci riguardano, l’incertezza che sta governando le scelte di politica economica di questo governo, col trasferimento dei fondi dedicati agli investimenti delle imprese verso altre soluzioni e la volontà di rivedere gli investimenti nelle infrastrutture, rende inevitabile l’accostamento tra politica e mercato. Un rallentamento della crescita dell’economia o addirittura quella recessione che è stata già annunciata nei giorni scorsi, potranno avere ripercussioni negative in tutti i settori, compreso quello del noleggio. Solo se verrà dato nuovo slancio agli investimenti, infatti, anche il noleggio ne risentirà in modo positivo, ma è proprio qui che quasi tutti constatano che, purtroppo, ciò non costituisce la priorità del nostro attuale governo. Per mantenere un cauto ottimismo, qualcuno si augura che alla fine il buon senso finirà comunque per prevalere nelle scelte essenziali dei nostri governanti. anche se allafine potrebbe essere troppo tardi.
Le misure principali della manovra economica del governo hanno acceso quindi i commenti sui possibili risultati nel breve e nel lungo periodo, snocciolati sia da chi è favorevole sia da chi è contrario. Strettamente collegate, sono le aspettative di chi lavora e produce, soprattutto le possibilità di crescita del Paese nei vari aspetti che questa parola può significare e nelle accezioni che possono essere usate per realizzarla. Sullo sfondo, o in primo piano, secondo l’ottica di chi osserva, c’è l’oggettivo rallentamento prolungato dei conti delle nostre imprese e le critiche degli economisti rivolte a tutto il sistema produttivo. E’ inutile girarci intorno: gli elementi per dare una spinta seria alla crescita economica di un Paese sono sempre quelli, usati in vari modi uguali e contrari nei confronti della platea sociale e politica con cui si ha a che fare: i soldi. Questi possono essere inquadrati come variabili del cosiddetto cuneo fiscale (il divario tra il lordo, comprensivo di Irpef e contributi previdenziali e il netto in tasca al lavoratore), oppure con un taglio delle imposte a favore dei lavoratori o delle imprese – o magari a entrambi. O, ancora, un sostegno alle imprese perché possano allargare la piattaforma delle assunzioni. Infine, nella forma di contributi girati nelle tasche dei lavoratori perché possano trovarsi nella condizione di spendere di più e aumentare il consumo di prodotti delle imprese.
Il tramonto delle teorie keynesiane
L’azione dello Stato in queste dinamiche può essere determinante, sia nella direzione d’interventi pesanti, sia in quella di lasciare ampi margini di libertà a un mercato in mare aperto. Le concezioni economiche del britannico Keynes, che focalizzava l’attenzione sulla domanda anziché sulla produzione ed era quindi favorevole a un forte intervento dello Stato (ma occorreva uno Stato altrettanto forte) capace di incrementare la domanda anche in condizioni di deficit pubblico non sono più applicabili. Ai tempi, infatti, non si aveva a che fare con la Commissione Europea e i suoi vincoli. Per Keynes maggiore domanda voleva dire maggiore consumo e maggiore occupazione, quindi investimenti e crescita economica. Oggi, con la rigidità dei parametri da rispettare, le spinte inflazionistiche sempre alle porte e un debito pubblico divorante, tutto ciò non è più possibile, almeno non con la stessa scioltezza.
Un intervento è però sempre possibile, e l’intervento politico del nostro governo c’è stato: il reddito di cittadinanza a sussidio contro la povertà. Questa scelta, seppur ridimensionata rispetto alle cifre inizialmente previste per via della pressione dei vincoli di cui si accennava sopra, dovrebbe innalzare gli assegni minimi per gli anziani e i disabili in difficoltà. La stessa norma è predisposta per portare benefici anche alle persone che, entro un limite d’età e in possesso di un titolo di studio, sono in cerca di un lavoro: dovranno iscriversi ai centri d’impiego e partecipare a corsi di formazione che dovrebbero sfociare in una occupazione. E’ una scelta di crescita, come indica il governo, o una scelta depauperante e assistenzialista, come viene indicato da più parti? Riassumiamo le parole che il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha detto a tale proposito nel corso dei suoi interventi televisivi o nelle sue risposte alla stampa. “Il reddito di cittadinanza deve essere un ponte che dia centralità all’occupazione e al lavoro, non un elemento che può, nel medio termine, diventare assistenzialismo. La possibilità che in luoghi come il mezzogiorno del Paese, in cui abbiamo una disoccupazione del 34%, si possa rinunciare a tre proposte di lavoro prima di perdere il reddito di cittadinanza, è un messaggio antitetico alla centralità del lavoro”.
Lavoro, occupazione, produttività: sono i cardini del ragionamento di Boccia, tanto è vero che, alla puntualizzazione che spesso gli è stata posta circa il possibile aumento della domanda proprio grazie al reddito di cittadinanza, Boccia ha risposto: “Con la politica dei consumi in fase assistenziale viene meno il concetto di crescita che il governo sostiene. Le imprese italiane sono il luogo del lavoro e dell’occupazione, occorre quindi raddoppiare l’importo previsto del fondo di garanzia per venire incontro alle esigenze di credito delle aziende e azzerare le tasse sui premi di produzione per favorire lo scambio salario-produttività. I posti di lavoro non si creano con l’assistenza ma abbassando il cuneo fiscale e facendo un grande piano d’inclusione per i giovani a partire dal mezzogiorno”.
Per onore di precisione, ci sarebbe oltretutto da riferire che gli ultimi aggiustamenti del Decretone fiscale sembrano rappresentare un aggravio della visione assistenziale dei provvedimenti. Per le imprese del mezzogiorno che assumono quest’anno dall’ampio bacino dei disoccupati, offrendo un contratto stabile a chi ha meno di trentacinque anni e risulta disoccupato da almeno sei mesi, è previsto, infatti, un azzeramento dei contributi. Questo provvedimento si somma alle agevolazioni contenute nel Reddito di Cittadinanza e che riguarda tutte le imprese in generale. Doppio incentivo, doppio assistenzialismo, quindi.
Boccia punta il dito anche sul “depotenziamento di strumenti quali il fondo per l’industria 4.0 e sul dimezzamento del credito d’imposta per la ricerca e lo sviluppo. Ricordiamo che il Fondo Industria 4.0 per il capitale immateriale, la competitività e la produttività, era un piano contenuto nelle Finanziaria 2017 che comprendeva sgravi fiscali, incentivi all’investimento in start up e PMI innovative, ed era finalizzato all’ampliamento degli investimenti per i giovani, per i volontari, per i territori più depressi. E’ perfino banale rimarcare quanto deleterio possa risultare una decurtazione del 60%, così come prevista dall’attuale esecutivo. Infine, l’abrogazione del credito d’imposta per l’acquisto di beni strumentali e la cancellazione delle deduzioni forfettarie in materia di Irap riconosciute a soggetti passivi che impiegano lavoratori dipendenti a tempo indeterminato in alcune regioni, significa dare un definitivo addio agli sgravi per le assunzioni al sud, con il conseguente orizzonte di una situazione occupazionale ancora più disastrosa dell’attuale.
Uno scenario che preoccupa
Ad appesantire i fatti e le considerazioni appena riportate troviamo un’altra misura particolarmente gravosa che, come una mina vagante, può compromettere il nostro futuro, cioè le cosiddette “clausole di salvaguardia” previste dai vincoli europei a difesa delle cifre di bilancio e che hanno permesso all’attuale manovra di ottenere il faticoso via libera dagli organi della Commissione. E’ presto detto: il reddito di cittadinanza e l’altra riforma centrale, quella pensionistica della cosiddetta “Quota 100” hanno costi altissimi che sono stati coperti dalle voci di bilancio riguardanti il relativo aumento dell’Iva, a regime previsto nel 2020/2021. L’aumento delle aliquote (dal 10% al 13% quella ridotta nel 2020 e l’ordinaria dal 22 al 25,2% nel 2021, fino al 26,5% nel 2022) rappresenta una tassazione gravosa che potrebbe penalizzare fortemente i consumi aprendo varchi impensabili per l’economia sommersa: l’effetto recessivo porterebbe, appunto, al minor consumo e di conseguenza al minore gettito Iva, con un ulteriore conferma di un sistema fortemente pesato sulla componente assistenziale anziché su quella produttiva. Per rispetto della manovra, bisogna anche dire che queste misure sono giudicate da alcuni un artificio di bilancio che non scatterà mai, ma resta la paura che alla fine non si possa fare a meno.
Tra le altre misure fiscali (la scomparsa dell’Ires per enti non commerciali, l’estensione del regime agevolato per partite Iva con ricavi fino a 65mila euro, la Web tax per i colossi della Rete, il condono fiscale per chi è in difficoltà economiche, solo per citarne i più significativi), ne troviamo una particolarmente capace di modificare, da subito, lo scenario del mercato, cioè la nuova tassa d’immatricolazione destinata ai veicoli più inquinanti, l’ecotassa, appunto, accompagnata dagli sconti per gli acquirenti di veicoli elettrici o ibridi. Stando a quanto riportato prima da Reuters e poi dagli articoli di stampa, l’amministratore delegato di FCA Mike Manley, in occasione del Salone di Detroit, ha ammesso che il piano d’investimenti da 5 miliardi previsto in Italia dal 2019 al 2021, con la piena occupazione degli stabilimenti, che era stato pensato prima della nuova misura fiscale, a seguito di questo nuovo contesto sarà rivisto, con modalità che terranno conto del varo definitivo della legge. Segnali inquietanti, che accendono una lampadina sugli investimenti istituzionali e sui piani occupazionali del nostro Paese.
Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici italiani, esprime quasi ogni giorno i suoi timori circa la tenuta dei conti e i rischi della nostra economia: “Il prolungamento dello status quo dei nostri conti pubblici aumenta i rischi perché riduce il tempo a disposizione prima che l’economia mondiale ed europea rallenti, prima che il sentimento sui mercati finanziari internazionali s’indebolisca, prima che una qualunque spinta recessiva porti a un aumento del rapporto tra il nostro debito pubblico e il PIL a una nuova crisi di fiducia. A rimetterci sono le prospettive di crescita dell’economia italiana”. Le ultimissime dichiarazioni di Cottarelli riportano in auge l’incombenza di una “patrimoniale” piuttosto pesante (circa del 10%) in caso di inizio della recessione. Le voci di smentita del governo, a tale proposito, si fanno sempre più flebili.
I ritardi e il peso sullo sviluppo non sono formule vaghe, ma rappresentano una situazione che è quella che si vede benissimo anche a occhio nudo e che determina la paura delle imprese in ogni settore: il nostro sistema produttivo continua a essere il fanalino di coda dei Paesi OCSE. Le nostre imprese non hanno programmato (o non sono state nella possibilità di programmare) investimenti in ricerca e sviluppo e hanno tenuto basso il livello tecnologico della propria produzione, priva d’innovazioni capaci di sviluppare valore aggiunto. Certo, le imprese non investono se non hanno una visione chiara del futuro e se permane la percezione che la carenza d’investimenti pubblici (la quota di investimenti sul PIL è in calo verticale da dieci anni) sia dovuta a scelte governative di posizionamento delle risorse con scarso impatto sulla crescita.
Un rallentamento di questo genere può spingere a un avvitamento verso il basso, capace di frantumare la produttività, l’occupazione e la tenuta sociale. E questo già si intravede, purtroppo, nel calo della domanda che sta spaventando anche i noleggiatori.