Forse solo chi è nato a Roma o vi ha passato un lungo periodo può capire il significato del “quinto quarto”: in breve gli scarti, gli avanzi dei tagli effettuati dai macellai intorno all’ottocentesco mattatoio capitolino di Testaccio, dopo che erano state vendute alle famiglie benestanti le parti pregiate, appunto i quattro quarti canonici. Ciò che rimaneva della bestia, trippa, coda e interiora varie, ha costituito dapprima la centralità della cucina povera del territorio e poi, visto la sua straordinaria gustosità, il trionfo di ristoranti sorti nella vecchia zona del mattatoio (dal 1975 trasferito) sui cui tavoli è presente a caro prezzo una cucina che povera davvero non è più.
Il tessuto economico italiano
Tutto questo per dire che anche il tema dell’imprenditoria di cui ci occupiamo ha portato alla ribalta dell’eccellenza in questo periodo un “quarto” molto speciale, non uno scarto certo né un avanzo, ma un mondo spesso trascurato o considerato invisibile e poi accortamente rivalutato, cioè il “quarto capitalismo”, lontano dalla grande industria, composto da aziende dinamiche di piccole/medie dimensioni che hanno saputo evolversi nella nuova realtà di mercato, occupandone anche le nicchie di forte specializzazione ad alto tasso di sviluppo.
Stiamo parlando degli studi che Mediobanca e Unioncamere hanno dedicato a questo universo negli ultimi anni: 4mila medie imprese industriali con fatturati dai 13 ai 290 milioni di euro, più altre 600 con fatturati fino a 3 miliardi, tutte caratterizzate da un’elevata propensione all’autofinanziamento (solida capacità di fare cassa in maniera costante) e con un indebitamento finanziario inferiore al patrimonio. Se a queste aggiungiamo un microcosmo di 500mila piccole, piccolissime aziende manifatturiere, ci troviamo di fronte un esercito imprenditoriale che crea occupazione e sviluppo proprio nella fase economica più critica degli ultimi decenni.
CONFAPI insiste: un’azienda italiana su cinque continua a investire anche più dell’anno scorso; soldi veri, dedicati al miglioramento dei processi produttivi, all’innovazione tecnologica, all’acquisizione di nuovi spazi all’estero per riposizionarsi in una nuova dimensione di qualità e di valore aggiunto: non un declino, ma una trasformazione in crescita.
Sentirsi speciali
Cosa vediamo alla base di tutto questo? Cosa lega in una comunanza traversale di regioni geografiche e settori diversi di attività questa serie di imprese investitrici dall’acciaio all’energia, alla meccanica strumentale, alle piastrelle, alla sartoria d’artigianato? Tante cose: una forte ramificazione e distribuzione territoriale; avere capito e, siamo convinti, definitivamente assorbito una maggiore attenzione per le energie alternative e i risparmi energetici; l’intelligente ritorno di una peculiarità tutta italiana, esplosa in passato in più occasioni e cioè il sentirsi produttori di specialità; quindi, usiamo pure un termine che spesso risulta insolito, la passione. Che deve avere, almeno all’inizio, l’opportuna informazione, il forte indirizzo, il necessario inserimento in una “bottega” di alta qualità e ispirata creatività.
Leggiamo, ad esempio, che le grandi sartorie cercano in continuazione giovani e sono disposte a formarli e a pagarli profumatamente (solo in Lombardia ne mancano 40.000) ma non trovano un’adeguata risposta perché inadeguata, pensiamo noi, è la composizione dell’offerta che non riesce ancora a toccare l’interesse di un giovane sui possibili sviluppi del settore della moda artigiana, sulla percezione reale del valore di un prodotto realizzato artigianalmente e sull’appetibilità dei guadagni che se ne possono trarre. Potrebbe essere una delle rivincite del laboratorio di nicchia che abbandona la “clandestinità” per conquistarsi un posto nella nuova filiera economica post-crisi.
Abbiamo parlato di estero: bene il fenomeno dell’ultimo periodo è dato da aziende italiane che fanno shopping negli USA di aziende americane. Avremmo mai pensato che fosse possibile? Eppure non c’è niente di strano: in una situazione generale che al momento sembrerebbe meno tragica del secondo semestre 2008, tutte le proiezioni danno l’America in prima fila per una ripartenza ormai prossima, per di più supportata da una avanzatissima tecnologia; è normale quindi che le imprese italiane spinte da un basso o nullo indebitamento, lo abbiamo detto prima, si diano da fare per ritagliarsi un posto sul crinale di un’onda innovativa che potrebbe presto dilagare in tutto il mondo.
Non abbiamo mai nominato la parola PIL, né qui, né nei precedenti articoli: non ci piace come strumento di misurazione, soprattutto in un periodo come questo in cui l’investimento sulla qualità, la ricerca e l’energia alternativa deve gettare il cuore oltre l’ostacolo. Lasciamo così la pagina a parole come queste: “Il PIL non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”. Robert Kennedy, Università del Kansas, 18 Marzo 1968.