Umanità 4.0

Pensando alle nuove tecnologie, all’intelligenza artificiale e alle crescenti innovazioni in ogni ambito della quotidianità lavorativa e personale, abbiamo l’impressione che l’uomo diventi sempre più obsoleto.

Neil Postman ha evidenziato qualche anno fa come gli strumenti tecnologici non siano solo integrati nella cultura, ma stiano puntando a diventare loro stessi una nuova cultura. Ma non stiamo assistendo a un nuovo paradigma sociale, anzi, la stessa cosa è successa con l’avvento della stampa di Gutenberg che ha intaccato la cultura orale, o col telescopio galileiano che ha messo in dubbio i fondamenti della religione cristiana.

Nasce così quello che è stato definito Umanesimo 4.0, una corrente sociologica che si propone di mettere al centro l’uomo con i suoi doveri, i suoi talenti e i suoi bisogni dove la tecnologia va intesa soprattutto come evoluzione/rivoluzione digitale al servizio di un miglioramento della vita, non una sostituzione.

Un approccio interessante soprattutto per il mondo aziendale che punta a costruire, a partire dalle persone, un percorso di crescita non solo funzionale e organizzativo ma anche e soprattutto personale e corporativo, grazie all’aiuto di supporti e innovazioni che permettono di semplificare e valorizzare le attività.  Questa idea è partita da una serie di libri di business e management pubblicati negli Stati Uniti nel 2017 cominciando da The Fuzzy and the Techie di Scott Hartley che evidenzia come senza la cultura umanistica non sia possibile affrontare le sfide – economiche, ma non solo – della società contemporanea. Hartley usa diversi esempi interessanti citando le lauree di alcuni dei protagonisti dell’economia tecnologica globale: Stuart Butterfield (cofondatore di Flickr e Slack) ha una laurea in filosofia; Jack Ma (il patron di Alibaba) è laureato in Letteratura Inglese, Susan Wojcicki (CEO di YouTube) in Storia e Letteratura, Brian Chesky (co-fondatore di Airbnb) è laureato in Belle Arti. Possiamo quindi parlare di una nuova generazione di umanisti digitali che partono da una formazione  classica che, associata a nozioni tecniche e metodologiche necessarie, permette di (ri)pensare il proprio lavoro e il proprio ruolo in azienda e nella vita.

In un mondo profondamente digitale non possiamo farci condizionare troppo dalla tecnologia ma dobbiamo imparare a utilizzare gli strumenti a nostra disposizione traendone il massimo senza dimenticarci la parte umana. Forse è il caso davvero di rivedere il paradigma tecnologico all’interno della nostra società, soprattutto in riferimento ad alcune realtà lavorative o, ancora di più, scolastiche. Perché il fine non è l’uso degli strumenti digitali ma lo scopo primario attribuito ai mezzi che, peraltro, sono soggetti a un’evoluzione estremamente rapida. Allora la capacità di integrare la tecnologia in specie il digitale nei processi e nei contenuti lavorativi deve essere conosciuta e applicata in modo critico, integrata all’interno di un processo culturale più ampio che rispecchi i valori aziendali e valorizzi i lavoratori permettendo loro di crescere, apprendere,  sapere.

In un mondo in cui si parla sempre più di integrazione tra tech skills e soft skills, cioè la capacità di rapporti umani, di relazioni di gruppo, di conoscenze condivise, di apprendimento continuo, di autocoscienza e consapevolezza di sé e del rapporto con gli altri e con l’ambiente l’innovazione tecnologica deve essere trattata come parte integrante di un rapporto più ampio tra uomo, cultura e ambiente. Insomma non un semplice mezzo a se stante, ma come parte utile a raggiungere degli obiettivi aziendali chiari e definiti.

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