Le aziende della sharing economy come Uber, Airbnb e Task Rabbit stanno creando un sacco di grattacapi ai governi nazionali e locali in giro per il mondo. Le aziende in questione sostengono di non essere soggette alle norme tradizionali dei settori in cui operano perché lavorano con Internet e fungono da meri intermediari. Gli operatori dei settori in questione ovviamente non sono d’accordo, e le proteste a volte diventano anche violente (come dimostrano i tassisti italiani ma soprattutto francesi contro Uber).
La risposta degli enti pubblici a queste innovazioni dovrebbe essere una modernizzazione delle regole. Non è sbagliato che un taxi, chiunque lo guidi, sia assicurato, controllato e non discrimini i passeggeri, così come una stanza in affitto non sia pericolosa per chi ci vive anche solo per qualche giorno. Ovviamente le imprese della sharing economy non saranno d’accordo, ma è in gioco la protezione del pubblico, per cui stabilire queste norme sembra corretto di per sé.
Tuttavia recentemente alcuni commentatori hanno ipotizzato un nuovo ruolo, più profondo, per gli enti pubblici: quello di veri e propri gestori dei servizi in questione.
L’opzione pubblica
L’idea è che i governi, nazionali o locali, creino servizi come quelli di Uber e soci, non con l’obiettivo di trarne profitto ma di offrire un servizio pubblico. In questo modo, sostituendosi a un intermediario privato come Uber o Airbnb, gli enti in questione potrebbero garantire redditi più alti a chi offre i suoi servizi, ma prezzi più bassi agli utenti finali, perché le loro commissioni dovrebbero coprire solo i costi della piattaforma.
L’ente pubblico ovviamente poi terrebbe per definizione sotto controllo elementi come ad esempio gli standard di qualità, le fedine penali dei fornitori, le assicurazioni e le manutenzioni delle auto, i sistemi antincendio delle case nonché il rispetto delle norme condominiali.
Un altro vantaggio sarebbe la disponibilità pubblica dei dati riguardanti i giudizi e le valutazioni del servizio. A oggi chi si iscrive a sistemi come Uber, ad esempio, rinuncia alla titolarità del proprio rating a favore del gestore. Un guidatore molto bravo, che oggi volesse passare da Uber a Lyft, ad esempio, non può portare con sé le proprie valutazioni positive. Se la piattaforma è pubblica, ecco che l’autista può farlo, o un bravo elettricista o una brava baby-sitter possono trasferire la loro reputazione da una piattaforma pubblica tipo Task Rabbit a un’altra.
L’opzione pubblica non deve per forza essere applicata a livello nazionale, ma può funzionare anche a livello locale. Sarebbe anche possibile creare una federazione di piattaforme pubbliche tra le città più grandi, proprio per favorire questa mobilità dei fornitori del servizio.
Ovviamente questi servizi non dovrebbero sostituire ed eliminare Uber e soci, ma solo costituire un’alternativa competitiva: l’obiettivo è che, al di là delle norme, un’alternativa efficiente e funzionale faccia da benchmark, da termine di paragone che spinge gli operatori privati a offrire un servizio migliore sia ai clienti che agli erogatori del servizio.
E voi, cari lettori di Rental Blog, che cosa ne pensate?
L’alternativa pubblica a Uber e soci sarebbe realizzabile?