La sharing economy è ormai diventata un fenomeno molto noto, quasi, possiamo dire, un fenomeno di costume.
Se fino a qualche anno fa praticamente solo noi di Rental Blog (e magari qualche altro sito specializzato in alcuni settori o in pratiche green e sostenibilità ambientale) parlavamo di temi come il consumo condiviso e l’era dell’accesso, oggi questi concetti sono sulla bocca di tutti. In parte sono stati resi popolari da querelle legali come quelle legate a Uber e soci, ma di sicuro ci sono tantissime persone che usano servizi di questo tipo ogni giorno, giusto?
Giusto?
Giustissimo, ma forse i servizi della sharing economy stanno semplicemente uscendo da quella che fino a oggi è stata solo una nicchia per pochi intimi.
Prendiamo ad esempio il caso degli Stati Uniti, dove quasi tutti i servizi più famosi sono nati e si stanno diffondendo. Secondo una recente ricerca pubblicata dal Pew Research Center, nonostante la grande notorietà verso i giovani e i giovanissimi, fenomeni come il ride sharing o la condivisione degli spazi sono ancora scarsamente diffusi presso la maggioranza della popolazione.
L’indagine in questione è stata condotta su un campione di quasi 5.000 americani adulti, a cui sono state poste domande su questi servizi innovativi, ma anche su servizi relativamente meno nuovi, come ad esempio quelli del commercio elettronico.
Il servizio più comune presso gli americani è l’acquisto di prodotti di seconda mano (quello che si può fare comunemente su siti come eBay), sperimentato dal 50% dei rispondenti. Al secondo posto c’è la consegna della merce a domicilio con modalità espresse o in giornata (servizio offerto ad esempio da Amazon), con il 41% dei rispondenti. In entrambi i casi si tratta di servizi collegati solo in modo indiretto alla sharing economy, più tipici invece di un eCommerce che potremmo chiamare tradizionale.
Le piattaforme che consentono di affittare case o stanze, fare da autisti con la propria macchina o usarla per effettuare consegne, sono molto meno comuni. Solo il 15% degli adulti ha usato un servizio di ride sharing. Solo il 6% dei rispondenti si è fatto consegnare la spesa grocery (quella di tutti i giorni) a casa, e solo il 4% ha assoldato qualcuno con un’App per affidargli un lavoretto o una commissione, o sfruttato un ufficio in coworking.
Anche la terminologia prevalente non è ancora molto nota. Solo un quarto degli americani conosce il significato di sharing economy e solo l’11% conosce quello di “gig economy” (il mercato di chi offre o utilizza lavoro a tempo determinato per piccoli compiti).
Questi dati sono in linea con i risultati di un recente studio del JPMorgan Chase Institute e degli economisti Alan Krueger di Princeton e Lawrence Katz di Harvard, secondo cui la percentuale di persone attiva nella gig economy è ancora basso, è pari a circa lo 0,5% della forza lavoro.
Si tratta di dati che dovrebbero spingere a una certa cautela sia i detrattori di Uber e soci, che parlano di una “precarizzazione” avanzata del mercato del lavoro, sia gli stessi guru della sharing economy, che ne esaltano l’innovazione e la diffusione.
Per ora si tratta di un fenomeno limitato ad alcune fasce specifiche della popolazione, giovane, relativamente ricca e caratterizzata da livelli superiori di istruzione rispetto alla media. Cittadini e consumatori che, peraltro, spesso non hanno ben chiari i confini delle polemiche in corso tra chi propone e chi osteggia questi servizi.
Un fenomeno che quindi ha amplissime opportunità di crescita, e che giustifica la durissima competizione già presente tra i vari servizi che cercano di imporsi come leader di questo mercato.