Proprio adesso in Svezia uno studente universitario si sta occupando di un lavoro estivo molto peculiare. Fa il venditore, ma non ha mai conosciuto alcun referente dell’azienda che produce ciò che deve vendere.
Il suo capo è infatti un’App, che in base alle sue capacità di venditore lo ha individuato come la persona adatta a certi prodotti, e ha anche tracciato un itinerario nella città di Stoccolma in grado di minimizzare i suoi spostamenti e massimizzare il numero di potenziali clienti visitabili.
So che sto per usare il paragone più trito e ritrito del decennio, ma questa App costituisce una sorta di Uber per la forza vendita: essa mette infatti in contatto le aziende con i venditori, che a loro volta possono scegliere per chi è per quanto lavorare. E se il paragone ormai ha stufato i nostri lettori (me compreso) è perché ormai esistono servizi di sharing per le cose più disparate: dai tutor privati ai dog sitter, fino ai servizi di lavanderia e di consegna dei pacchi. E data la flessibilità che questi servizi offrono tanto ai lavoratori quanto ai clienti, è lecito almeno nel medio termine attendersi un ulteriore loro aumento.
Questa storia non è quindi lo spunto per parlare dell’ennesima App della sharing economy, ma per fare il punto su vantaggi e svantaggi dei vari sistemi di consumo condiviso e in particolare su uno dei problemi a oggi forse più sottovalutati dell’ondata di strumenti e applicazioni del consumo condiviso: la gestione del talento e della formazione dei lavoratori.
Lati positivi e negativi
Come è forse ovvio, molti tassisti odiano Uber e la sua concorrenza. Altrettanto ovvio è che, aumentando l’offerta di autovetture a prezzi più bassi, i consumatori al contrario lo apprezzano. Ma quale è l’impatto di Uber e soci su chi guida e/o lavora per loro?
Le aziende della sharing economy sono pronte a dire che, in base ai loro studi, chi lavora per loro guadagna di più dei concorrenti tradizionali. Questo vale non solo per Uber, ma anche ad esempio anche per Airbnb, che sostiene di far crescere i redditi di chi condivide la sua casa.
Al di là dell’aspetto strettamente economico, chi lavora nei servizi condivisi può usare il proprio tempo in modo più flessibile. I guidatori possono lavorare part time e non dover per forza aspettare i clienti fermi in un posteggio. Il tempo disponibile può essere speso per fare altri lavori (tradizionali o in altri servizi della sharing economy) o per studiare.
In sostanza, questi servizi presentano benefici soprattutto per chi ha voglia e risorse per impiegare produttivamente il proprio tempo, per chi si sa organizzare da solo ed è ambizioso. Molte persone sono così, ma non tutti. Non sembra un caso, ad esempio, che tra gli autisti di Uber, secondo le statistiche, ci siano in media molti più laureati che tra i tassisti tradizionali (negli USA la percentuale è 48% contro 18%).
Fronte della formazione
Nello scenario di prima dell’avvento di Uber e soci, la gestione delle competenze dei lavoratori e i relativi investimenti in formazione sono quasi completamente a carico dell’azienda. Quest’ultima si occupa di trovare un po’ di persone, selezionarle, farle lavorare e insegnare loro a svolgere i loro incarichi. Alcuni tra coloro che vengono assunti hanno le capacitá per crescere in termini di competenza e gerarchia, altri no, ma l’azienda li deve formare tutti, se non altro per motivi di necessità contingenti.
Nell’economia della condivisione, invece, il lavoratore deve arrivare già formato, pronto per un’esperienza di lavoro anche breve. Il datore di lavoro ha quindi l’incentivo a investire di meno in formazione, e invece è il lavoratore a doversi dare da fare in tale direzione, per un lavoro che può essere quello attuale o uno futuro.
Questo scenario crea quindi una disparità tra i lavoratori in grado di formarsi da soli, sia come capacità tecniche che come autodisciplina, ma anche come disponibilità economiche per pagarsi da soli i corsi di formazione eventualmente necessari, e quelli invece non in grado di farlo. E questo a prescindere dai potenziali ritorni economici di una formazione autofinanziata. Il rischio è quindi che molti lavoratori del futuro restino purtroppo ai livelli di formazione posseduti in partenza, con possibilità di avanzamento di carriera ancora più scarse di quelle della situazione attuale.
Certo, si potrebbe ribattere che nella situazione attuale (senza Uber) i lavoratori più attenti e desiderosi di imparare sono sottoutilizzati, e pagati esattamente come quelli che resteranno per sempre confinati nel ruolo in cui sono entrati nel mondo del lavoro. Il mondo della sharing economy spinge quindi a un utilizzo migliore delle competenze delle persone più vogliose di imparare e darsi da fare, e non è detto che questo sia un male.
In uno scenario di maggiore diffusione dei servizi come Uber, il futuro è quindi più facilmente nelle mani di coloro che hanno un elevato livello di autodisciplina e voglia di imparare. Forse occorre quindi che tutto il sistema si adegui a questo nuovo scenario, ad esempio formando persone capaci di continuare a imparare da sole al termine del loro percorso di studi tradizionale.
Un altro tema importante da questo punto di vista è la visibilità che i servizi come Uber hanno e avranno nel complesso dell’economia. Ora come ora tutte le valutazioni e i giudizi degli utenti di Uber restano su Uber. Non sarebbe sbagliato, in futuro, che al crescere della sua rilevanza Uber rendesse pubblicamente accessibili queste valutazioni, consentendo agli autisti più bravi di lavorare anche in altri campi capitalizzando la reputazione guadagnata faticosamente alla guida e con un servizio impeccabile.
In sostanza, quindi, l’evoluzione dell’economia condivisa è destinata a cambiare molti degli scenari a cui siamo abituati a ragionare oggi (in Italia forse doppiamente, visto il livello di ritardo con cui ci muoviamo rispetto ad altri paesi). Sarà un percorso probabilmente difficile, ma certi versi anche molto eccitante e innovativo.