Si chiama “home restaurant” l’attività finalizzata alla condivisione di eventi enogastronomici esercitata da persone fisiche all’interno di unità immobiliari ad uso abitativo in cui si ha la residenza o il domicilio, proprie o appartenenti a un soggetto terzo, per il tramite di piattaforme digitali che mettono in contatto gli utenti e con preparazione dei pasti all’interno delle strutture medesime. La definizione non arriva dalla Treccani bensì dallo Stato che ha di recente promulgato la prima legge che regolamenta gli home restaurant, un nuovo tipo di sharing economy che nel 2014 ha prodotto 7,2 milioni di euro.
Azzurra Cancelleri del Movimento 5 Stelle, prima firmataria del provvedimento, ha affermato: “Quello degli home restaurant è un fenomeno che serviva regolamentare perché si ha a che fare con la somministrazione di cibi e si erano registrati dei problemi di sicurezza alimentare. Inoltre, i ristoratori denunciavano la concorrenza sleale, da qui è nata la nostra proposta di legge divenuta testo base per il testo unificato approdato alla Camera”.
Il testo della legge va a limitare le potenzialità di questo business: vietato superare 500 coperti per anno solare, né generare proventi superiori ai 5.000 euro annui.
Giambattista Scivoletto, fondatore di homerestaurant.com, non è contento del nuovo testo: “La legge attuale sull’home restaurant, così com’è impostata, accorpa e snatura le quattro leggi presentate fra il 2015 e il 2016, introducendo dei limiti che non erano presenti in nessuna delle quattro proposte come l’obbligo di registrazione alle piattaforme on line e l’obbligo di acquisire i pagamenti esclusivamente online tramite una di queste piattaforme. Di certo la registrazione e la tracciabilità di qualsiasi pagamento sarebbero un’innovazione non da poco dal punto di vista fiscale, ma nella fattispecie renderebbero illecite azioni banali come, ad esempio, chiamare e prenotare direttamente l’Home Restaurant, un limite che non esiste per alcuna attività economica esistente”.
Anche Cristiano Rigon, Amministratore Delegato di Gnammo, è critico sulla scelta della Camera e volge il suo sguardo al tetto di 5.000 euro: “Tale forte limite di profitto significa non aver compreso il potenziale della sharing economy, tutelando incondizionatamente una categoria a discapito di un’altra, misurandola su piani differenti”.