La notizia è di quelle che fanno pensare a una consacrazione.
Con l’ultima versione del suo sistema operativo per smartphone e tablet, iOs 7, anche Apple consentirà ai suoi clienti di ascoltare musica in streaming. La nuova applicazione si chiama iRadio, e consente a prima vista di ascoltare tutta la musica che si vuole gratis. Una apparente vittoria quindi del consumo sull’acquisto, sulla disponibilità del bene (anche se immateriale, cioè la musica) sull’obbligo di acquistarlo per forza.
Ma non è tutto consumo condiviso quello che sembra all’apparenza.
Facciamo un po’ d’ordine.
Già da diversi anni, dopo aver faticosamente capito che la battaglia contro la pirateria non si poteva combattere solo a colpi di cause legali, con il rischio di santificare i pirati e di alienarsi il favore dei pochi consumatori contrari alla pirateria, le case discografiche sono state controvoglia soccorse da diversi servizi che consentono, in modo del tutto legale, di ascoltare la musica online gratuitamente o a pagamento (tralasciamo qui i puristi dell’ascolto che reputano, probabilmente a ragione, di bassissima qualità l’ascolto digitale, e concentriamoci sul restante 99,9% del mercato). Di Spotify, ad esempio, abbiamo già parlato qui e poi qui.
I modelli di business nel settore sono di fatto due: il primo è quello di Spotify, appunto, che ti fa scegliere e ascoltare tutti i brani che vuoi, gratis (ascoltando la pubblicità a intervalli regolari), oppure pagando un canone mensile. Questo modello, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, consente a chi ascolta di abbandonare per sempre l’obbligo di acquistare (o piratare) la musica, per passare all’ascolto on demand, quando si vuole. Insomma: dall’era del possesso all’era dell’accesso.
Il secondo modello di business, esemplificato da servizi come Pandora, è quello della radio online in streaming. Qui l’utente sceglie non ciascun singolo brano, ma un genere, o un artista: il servizio fa il resto, creando una programmazione musicale basata sul genere o sull’artista e adattandola ai gusti di chi ascolta, analizzando e interpretando le scelte di migliaia di utenti prima di lui. E’ infatti possibile “votare” i brani, eliminando quelli sgraditi e approvando quelli graditi, fino a creare la propria radio ideale, basata ad esempio sul Rock inglese anni ’90 o sui Depeche Mode. Non è però possibile scegliere un brano specifico, o ascoltare un intero album di fila.
Che Apple abbia quindi deciso di entrare con la sua iRadio nel mercato dello streaming (modello di business numero 2) può quindi far pensare che ormai nella musica online il consumo on demand sia diventato il modello predominante, e che siamo veramente di fornte alla consacrazione dell’accesso alla musica.
Tuttavia un po’ di cautela è d’obbligo.
Il modello della radio online è infatti stato scelto da Apple per un motivo ben preciso. E’ il modello che crea meno attriti con le case discografiche, da cui dipende l’autorizzazione a qualsiasi progetto in questo campo. E quale può essere lo strumento con cui Apple sta via via convincendo le case discografiche a concedere la loro musica per la iRadio?
Semplice: il tasto “compra questo brano su iTunes”.
La potenza della base installata di iPod, iPad e iPhone nel mondo è infatti tale che migliaia, se non milioni, di persone nel mondo, dopo aver ascoltato un certo brano nel proprio telefono, decideranno di acquistarlo (facile: basta un tap!), portando probabilmente nelle casse delle case discografiche molti più soldi di quanto siano in grado di fare Spotify & C (che notoriamente pagano pochissimi centesimi di dollaro ad ascolto).
Più che un passaggio all’era dell’accesso, quindi, un caso di “noleggio” come modello per agganciare il cliente, fargli provare il prodotto e convincerlo poi all’acquisto.
Per entrare nell’era dell’accesso passate da Spotify, che è meglio.