In principio era la condivisione. Questo almeno è quanto si potrebbe dedurre pensando a come i nostri antenati vivevano in tribù in cui le risorse venivano condivise tra i membri per usarle in modo efficiente e garantire così la sopravvivenza del gruppo. Una modalità diffusa ancora oggi in alcune tribù che vivono in aree non raggiunte dalla nostra civiltà.
E la condivisione, come ben sanno i lettori di questo blog, è in ripresa in tutto il mondo, grazie a strumenti e servizi che consentono di condividere auto, case, uffici e altri strumenti di varia natura.
Il consumo condiviso è così diventato un affare serio, con aziende valutate miliardi di dollari e altre acquisite dai big tradizionali degli stessi settori in cui operano (Zipcar e Avis, giusto per fare un esempio). Aziende come Amazon offrono piattaforme per la condivisione del tempo, nel senso che compiti semplici e ripetitivi possono essere affidati a eserciti di lavoratori che operano in modo auto-organizzato da casa propria.
Ma l’impatto della sharing economy non si ferma qui. Con l’ingresso degli innovatori della condivisione interi settori o mercati vengono sconvolti, come dimostra in modo eclatante lo scontro tra i tassisti milanesi e Uber.
L’economia della condivisione ci può quindi portare a una società più equa, sostenibile e solidale, in cui si consuma di meno e si collabora di più, ma anche a una crescita del ruolo delle grandi aziende, che cercano di trasformare ogni relazione tra le persone in un’occasione per generare una transazione e lucrare una commissione.
Chi ci guadagna?
Il mese scorso si è tenuta a Parigi una conferenza, la OuiShare Fest, dedicata a tutti i temi che, in senso lato, ruotano attorno alla condivisione e alle comunità.
Tutte le presentazioni e le conferenze che si sono tenute in quell’occasione erano piene di riferimenti a concetti come “fiducia”, “comunità”, “rete”, “passione”, “collaborazione” e anche “amore”. Non poteva mancare il contributo di giovani attivisti convinti di poter cambiare il mondo attraverso l’economia della condivisione, ribaltando i modelli capitalisti tradizionali basati sull’organizzazione gerarchica e il profitto.
Non è però molto chiaro quale sarà il livello di giustizia sociale di queste attività. Nelle varie presentazioni non si è quasi mai parlato di cooperazione o di altre forme di ripartizione dei profitti. Si è parlato molto di “distruzione” ossia dell’impatto dell’economia condivisa sull’establishment delle aziende capitaliste di settori come l’accoglienza.
Quello di cui si sente sempre parlare poco, al di là delle proteste dei diretti interessati, è l’effetto potenzialmente distruttivo che le nuove tecnologie hanno sugli operatori più deboli del mercato, quelli meno organizzati. Nel crowdsourcing, ad esempio, la paga oraria data a chi svolge sul web compiti banali e ripetitivi è di gran lunga più bassa di quella per lavori più tradizionali. In questo la condivisione di piccoli compiti su vasti gruppi di lavoratori rischia di sfociare nello sfruttamento.
Da un lato, quindi, l’economia della condivisione può essere più equa, perchè consente alle persone di comprare di meno e di connettersi tra loro, mantenendo il valore di certi servizi nella propria comunità. Ma dall’altro potrebbe rendere i consumatori e i cittadini dipendenti da alcune aziende che, in ultima analisi, controllano gli strumenti di accesso ai servizi e ne traggono profitti sotto forma di commissioni.
L’unico elemento che per ora sembra impedire che questo scenario di realizzi è la presenza di numerose aziende della sharing economy che offrono i loro servizi, in competizione tra loro. Questo tuttavia non impedisce che alla fine qualcuna prevalga su tutte le altre, diventando di fatto un monopolista, o che la guerra di prezzo non vada a penalizzare i lavoratori che sfruttano queste piattaforme dal lato dell’offerta.
Il rischio è quello non tanto di distruggere il modello capitalistico tradizionale, ma semplicemente di sostituire vecchi capitalisti con altri, più nuovi e tecnologici.
La domanda fondamentale nell’analisi dei modelli di condivisione diventa quindi: chi ne trae beneficio?