Il parcheggio è una di quelle attività che creano problemi nel già difficile contesto della guida di tutti i giorni. Oltre alle difficoltà che alcuni guidatori hanno nell’effettuare le manovre, c’è da aggiungere prima ancora quella di trovarlo, il parcheggio. Tant’è vero che su alcuni siti dedicati alla scienza e alla psicologia si trovano articoli dedicati al tema di che cosa sia meglio fare quando si cerca un posteggio in una zona come un centro commerciale affollato al sabato pomeriggio: meglio fermarsi e aspettare che qualcuno vada via, o girare sperando di beccare il posto vuoto?
Internet, le App e il consumo condiviso non potevano non venire in soccorso dei guidatori, ma questa volta la cosa si porta dietro un certo strascico di polemiche.
Questa è infatti la reazione che ha suscitato l’uscita, a San Francisco ma anche in Italia, di MonkeyParking, un’App con cui chi sta lasciando libero un posteggio può avvisare gli altri guidatori di una zona, proporre un prezzo e farsi pagare per metterlo a loro disposizione. Il procuratore della città californiana ha infatti emesso un ordine con cui vietava l’uso dell’App, e per ora il servizio è fermo.
Alla base della disputa legale c’è la possibilità o meno che un servizio possa usare un bene pubblico (lo spazio nei parcheggi) per estrarne un profitto. Il procuratore sostiene infatti che in base alla legge locali è vietato offrire in vendita o in affitto spazi di parcheggio pubblici. L’azienda ha risposto che la sua App non vende né affitta spazi, ma solo informazioni sulla loro disponibilità. Ha anche aggiunto che, facilitando queste attività, contribuisce a ridurre il numero di veicoli in cerca di posteggio, con conseguente riduzione del traffico e dell’inquinamento (oltre che dei consumi complessivi).
MonkeyParking punta quindi a far parte dell’economia della condivisione, come gli arcinoti Uber e Airbnb, massimizzando l’uso efficiente delle risorse disponibili. La differenza, però, è che in questo caso alla base del servizio non ci sono beni privati (auto, case), ma pubblici. Se è per quello, anche Airbnb si è trovata a fronteggiare cause legali quando i suoi utenti, in alcuni stati USA, offrivano un subaffitto di una casa non di loro proprietà.
Lo sfruttamento, sia pure indiretto, di informazioni su beni pubblici non sembra, in altre parole, in linea con lo spirito un po’ hippy del consumo condiviso.
L’App MonkeyParking in realtà è tutta italiana: l’hanno realizzata nel 2013 tre ragazzi, Paolo Dobrowolny, Roberto Zanetti e Federico Di Legge, partendo dal problema del parcheggio a Roma (dove funziona da diversi mesi). Come spesso accade, le differenze tra il nostro Paese e quello a stelle e strisce emergono in modo chiaro. Negli USA l’App gestisce il pagamento delle informazioni direttamente al suo interno, mentre in Italia occorre regolarsi (in contanti, quindi potenzialmente in nero, ma vabbè) direttamente quando si cede il proprio posteggio. In Italia, peraltro, non si ha ancora notizia di alcuna controversia in merito alla liceità del servizio, men che meno di possibili beghe legali.
Negli USA invece le successive ondate di lancio di sempre nuove App per la condivisione di questo o quel bene o servizio hanno scatenato, nelle ultime iterazioni, diverse polemiche. L’App ReservationHop è entrata nell’occhio del ciclone per aver provato a creare un sistema di acquisto e rivendita i prenotazioni nei ristoranti più alla moda e difficili da raggiungere. Qui il problema non è tanto che si “rivendano” prenotazioni non usate, ma che la stessa App metta a disposizione degli utenti un cognome finto e prenotazioni fasulle fatte con questo sistema, da annullare se poi non servono.
In questo caso, come in quello di MonkeyParking, un altro dubbio può sorgere: tutte queste App mettono un cartellino del prezzo a certi beni o servizi, alcuni a oggi già “prezzati” sul mercato (il trasporto su taxi nel caso di Uber, le camere di albergo in quello di Airbnb), altri assolutamente gratuiti (i parcheggi liberi, la prenotazione di un tavolo al ristorante).
Gli economisti liberisti saranno d’accordo: significa che esiste un mercato per queste cose, con persone disposte a pagare anche tanti soldi per un posteggio, per trovare posto in un ristorante o una macchina nei momenti più trafficati.
Altri invece non saranno molto felici: mettere un prezzo (magari elevato) a tutto significa trasformare certi servizi in un lusso. Non per niente su Twitter è presente un hashtag per queste App: #JerkTech, ossia #TecnologiaStron…
Buonasera Sig. Cresta. A Positano il “pproblema” del parcheggio “condiviso”.. lo hanno risolto diversamente. Senza App. Parking gestiti da privati a costi da usura… Parcheggi pubblici.. in “mano” a privati che sostano la loro macchina.. “vendendo”poi il parcheggio al turista-pollo di passaggio… ovviamente sempre a caro prezzo e senza Pos.
Beh, allora abbiamo trovato un altro punto a favore di MonkeyParking: se tutti la usassero si eliminerebbe il ruolo di questi “intermediari”…
Scherzi a parte, caro Vittorio, il suo paragone non fa una piega: l’idea di scambiarsi a pagamento i posteggi suona un po’ uno sfruttamento di qualcosa che non dovrebbe essere sfruttato, né in modo “legale” (ad esempio pagandoci le tasse), né in modo “mafioso”.
A volte quando sono in un centro commerciale e sto tornando alla macchina, se vedo qualcuno alla ricerca del posteggio sono io il primo a dirgli dove è la mia, se sto per andare via, eccetera, perché ho ben presente quanto mi fa piacere se fanno lo stesso con me quando arrivo.
Tutto gratis, ovviamente.