La cosiddetta gig economy, ossia l’”economia dei lavoretti”, in cui le persone possono mettersi a disposizione per svolgere alcuni servizi, è un’area dell’economia ancora molto giovane, nonostante la crescita degli ultimi anni.
Alla base dei servizi che consentono ai lavoratori di guadagnare con queste occupazioni temporanee ci sono le piattaforme, come Uber e Lyft, che stanno rivoluzionando il trasporto cittadino attraverso concetti come il ride sharing.
Man mano che il settore cresce e si struttura meglio, emergono in modo più chiaro gli elementi alla base di questi modelli economici, e in particolare il modo in cui i lavoratori svolgono i loro compiti e, soprattutto, guadagnano.
E alcuni dati sul mercato USA, pubblicati dal JPMorgan Chase Institute, sembrano indicare che i guadagni per i lavoratori della gig economy sono in calo rispetto al passato.
Lo studio, condotto da questo istituto analizzando i pagamenti effettuati sui conti della Chase Bank, sostiene che in media gli autisti e corrieri di Uber, Lyft, Uber Eats e Postmates (e altri servizi simili) nel 2017 hanno ottenuto ricavi inferiori del 53% a quelli del 2013.
I guadagni medi mensili di questi imprenditori sono calati dai 1.469 dollari del 2013 ai 783 dollari dell’anno scorso. Nello stesso periodo di tempo, coloro che hanno usato altre piattaforme di sharing, come ad esempio Airbnb per gli appartamenti, hanno invece visto salire i loro ricavi mensili in media del 69%.
Più in generale, l’economia dei lavoretti negli USA è diventata sempre più popolare, soprattutto nel settore del trasporto di persone e cose. La percentuale di persone che ha lavorato per piattaforme della sharing economy online è salito negli Stati Uniti da meno del 2% nel 2013 a quasi il 5% nel 2018 (più o meno la stessa percentuale di persone impiegate nelle amministrazioni pubbliche ai vari livelli). E nel caso dei trasporti, gli operatori della gig economy sono saliti da una percentuale quasi inesistente nel 2013 al 2,4% quest’anno.
Perché si guadagna di meno
Ci sono diversi motivi possibili per questo calo dei guadagni medi degli operatori della gig economy.
Secondo il JPMorgan Institute potrebbero essere tutte o solo alcune tra le seguenti:
- Gli autisti in media lavorano per meno ore.
- Non si è registrato un aumento della domanda tale da compensare l’aumento del numero di autisti.
- I prezzi medi delle corse sono scesi.
- Le piattaforme come Uber e Lyft hanno abbassato i livelli delle commissioni che trasferiscono agli autisti.
Secondo Uber, una delle piattaforme citate in modo più diffuso nello studio in questione, il motivo fondamentale risiede nel fatto che rispetto al passato è aumentata la percentuale di guidatori che scelgono in media di lavorare solo part-time.
In altre parole, per la maggior parte degli autisti lavorare per Uber o per altri servizi analoghi sarebbe un’attività aggiuntiva e saltuaria, e non quella principale. A conferma di ciò, sempre secondo Uber, una metrica più adatta per valutare questo fenomeno sarebbe la paga oraria media, che è rimasta in larga parte invariata negli ultimi anni.
Anche Lyft è in questo caso d’accordo con il suo principale concorrente: secondo Lyft la maggior parte dei suoi autisti lavora part-time, spesso meno di 10 ore alla settimana, e questa flessibilità è uno dei fattori alla base della loro scelta.
Negli USA più del 50% degli autisti lavora meno di 10 ore alla settimana, secondo Uber, che sostiene anche che la riduzione del ricavo medio per tragitto è stata compensata dall’aumento del numero di clienti serviti e tragitti percorsi.
Un diverso modo di lavorare
La ricerca del JPMorgan Institute sembra quindi dimostrare che la gig economy è fatta non di lavoratori a tempo pieno, ma da persone che integrano in modo destrutturato un reddito da lavoro più tradizionale, il quale, tuttavia, sembra non essere più sufficiente a garantire un reddito adeguato alle famiglie della classe media.
In media i ricavi da attività svolte sulle piattaforme online non superano il 20% di quelli complessivi registrati sui conti della Chase Bank, e molti conti registravano ricavi di questo tipo solo in tre mesi all’anno, o più raramente.
La gig economy è un fenomeno notoriamente difficile da misurare: a seconda dei parametri adottati ne fa parte dal 5 al 40% dei lavoratori. Questo studio si è focalizzato solo sui lavori procurati tramite le piattaforme online, mentre altri spesso includono anche il lavoro dei più tradizionali consulenti e titolari di partita IVA. Tuttavia esso ha dalla sua parte il fatto che analizza veri e propri flussi finanziari (registrati su 39 milioni di conti correnti tra il 2012 il 2018), e non semplici dichiarazioni rilasciate in interviste ai lavoratori.
Eppure quando lo studio è iniziato il numero di piattaforme online monitorate era di 42; oggi tale numero è arrivato a ben 128. E altre ancora, non monitorate, potrebbero essere presenti sul mercato, così come altri servizi di pagamento che non transitano dai conti correnti (come ad esempio PayPal).