Riprendiamo con questo articolo la nostra serie di post dedicati agli errori cognitivi. Nei mesi scorsi ci siamo occupati:
- del pregiudizio sullo status quo;
- del pregiudizio di conferma;
- dell’errore di rinforzo delle scelte;
- dell’effetto gregge;
- dell’euristica della disponibilità;
- dell’effetto ancoraggio.
Oggi parliamo dell’effetto dotazione, anche noto come effetto dote (in inglese endowment effect), che consiste nella tendenza delle persone ad assegnare maggior valore a ciò che si possiede già, rispetto a quello che non si possiede.
Si tratta di un errore cognitivo molto comune, ampiamente dimostrato dagli studiosi mediante esperimenti condotti con gruppi di persone. In un esperimento ormai molto noto, a metà degli studenti di una classe furono assegnate alcune tazze con il marchio dell’università a cui appartenevano. Quelli che ricevettero la tazza dichiararono che il prezzo per cui l’avrebbero ceduta ai loro compagni era in media di 5,78 dollari. Quelli che non l’avevano ricevuta dichiararono che, in media, avrebbero pagato 2,21 dollari per acquistarla.
Altri esperimenti simili, con formule differenti, hanno dimostrato che quando qualcosa è già nostro tendiamo a valutarlo di più di quanto faremmo se dovessimo acquistarlo.
Secondo gli psicologi cognitivi questo errore deriva dalla nostra innata avversione alle perdite: doverci separare da qualcosa che possediamo (non importa se acquistato con i nostri soldi o avuto in regalo) è a suo modo doloroso, e pertanto richiediamo una ricompensa superiore al valore del bene in altre circostanze. Altri studiosi hanno cercato di associare questo valore intrinseco ad altri elementi, come i nostri valori e credenze nella vita: nel caso delle tazze universitarie il valore deriverebbe ad esempio dall’attaccamento alla propria università o alla sua squadra di football o basket.
Altri infine, ritengono che l’elemento fisico associato al possesso (ad esempio stringere per la prima volta tra le mani lo sterzo della nostra nuova auto) dia peso a questo errore. Alcuni studiosi sostengono ad esempio che il semplice atto di lavarsi le mani abbia favorito lo scambio di beni in un mercato fittizio ricreato come esperimento su questo errore.
Quando ne siamo vittime
La conseguenza più concreta è che quando siamo di fronte alla scelta se cambiare qualcosa o liberarci di un bene inutile, siamo restii a farlo e lo consideriamo invece molto importante. Questo può avere conseguenze negative molto importanti.
Un esempio che viene alla mente è quello di chi, dovendo vendere la casa dei genitori ricevuta in eredità, si aspetta di ottenere un prezzo ben superiore a quello di mercato, perché ha tutta una serie di elementi affettivi, che giustifica (con un errore di rinforzo delle scelte) con motivazioni apparentemente sensate (ad esempio il quartiere in cui è ubicata), quando altri elementi oggettivi la penalizzano (stabile vecchio senza ascensore, infissi da sostituire e altri lavori da fare, eccetera).
Il rischio è che, in attesa di un compratore che “riconosca il vero valore di quella casa”, il proprietario aspetti troppo, e sia costretto a svenderla, magari nel momento in cui dovesse avere urgentemente bisogno di quei soldi.
Sempre nel mercato immobiliare, l’effetto dotazione viene da alcuni citato come motivo per cui non è mai di fatto decollato il mercato della cessione della nuda proprietà, con cui chi vive in una casa ne cede la proprietà in cambio di una somma predefinita o di una rendita da godere fino alla sua morte.
Nel mondo dello sport, questo è un errore che possono commettere alcune squadre in cerca di questo o quel campione: a forza di immaginarlo già con la propria maglia o di ipotizzare gli schemi tattici che il suo arrivo consentirà di mettere in pratica, manager e allenatori finiscono per pagarlo in modo sproporzionato rispetto al suo valore.
Un errore di tutti
Qualunque sia la spiegazione, viene da pensare che individui estremamente razionali non siano soggetti a questo errore, perché sono in grado di capire che un certo bene o servizio vale quello che vale, a prescindere dal fatto che lo possediamo o meno. E poi, con tutto il rispetto, vogliamo fidarci di qualcosa che è stato dimostrato coinvolgendo dei giovani studenti universitari in un esperimento che ha poco o nulla a che fare con la vita reale? E’ improbabile che questo succeda a tutti noi.
Giusto?
Non proprio.
Un recente studio ha infatti analizzato i comportamenti degli investitori di Borsa in occasione di varie quotazioni di nuove aziende (OPS) sul mercato indiano. Quando queste offerte ottengono un grande successo di aderenti potenziali, le azioni disponibili vengono estratte a sorte tra i sottoscrittori. Chi non viene estratto può solo acquistarle il primo giorno di contrattazione.
In teoria gli investitori dovrebbero valutare le stesse azioni allo stesso modo: dopo tutto, hanno partecipato alla stessa OPS a condizioni identiche. Tuttavia, gli economisti che hanno condotto lo studio hanno scoperto che in media il 62,4% di chi ha ricevuto le azioni le possedeva ancora dopo un mese, mentre solo l’1% di chi non ha vinto la lotteria le ha poi acquistate davvero.
Questo potrebbe essere dovuto al fatto che le azioni spesso salgono molto il primo giorno di contrattazione. Tuttavia non si registrano differenze significative tra le azioni che sono “esplose” al debutto sul mercato, e quelle che invece sono rimaste ferme o addirittura sono scese. Chi perde la lotteria semplicemente non compra più le azioni il giorno dopo, anche se magari sarebbe ancora più conveniente farlo, con il senno di poi.
Molte altre spiegazioni possibili sono state escluse dai ricercatori: questo comportamento non cambia in funzione del livello di esperienza degli investitori (professionisti o inesperti) o del loro livello di attività sul mercato (iperattivi contro “cassettisti”). Si tratta di effetto dote puro e semplice.
L’effetto dotazione non è purtroppo un errore cognitivo che riguarda solo la Borsa o il mercato immobiliare. Ne siamo potenzialmente a rischio tutte le volte che valutiamo qualcosa più importante solo perché è ciò che possediamo.
In campo aziendale, si pensi al rinnovo di certe infrastrutture o strumenti (ad esempio PC e rete informatica), dove la sostituzione di macchine obsolete o poco performanti con una nuova tecnologia potrebbe portare, dopo il necessario periodo di adattamento, a forti miglioramenti della produttività di tutto il personale.
Un costo immediato e certo (quello monetario di acquisizione della nuova rete e l’obbligo di cambiare modo di lavorare per alcune persone), sommato alla considerazione che, in fondo, gli strumenti disponibili funzionano ancora abbastanza bene, è un incentivo molto potente a cercare scuse per lasciare tutto come sta.
Per un noleggiatore, questo bias potrebbe essere anche un elemento di ostacolo a far provare il noleggio a un’azienda che fino a oggi ha conosciuto sempre e solo l’acquisto come formula di acquisizione dei suoi beni e strumenti.
Un altro esempio di conseguenza negativa si ha quando si deve rinunciare a servire un cliente, magari perché le sue esigenze non collimano più con quelle dell’azienda e servirlo genera troppi costi ed erode (o elimina) tutti i profitti. Abbandonare un cliente in questo caso è doppiamente faticoso, perché l’effetto dotazione, derivante dai ricavi a cui si deve rinunciare, potrebbe sommarsi ad altre considerazioni di natura personale, se con il cliente si è creato un minimo di rapporto umano.
Come riconoscerlo e ridurlo
Come sempre, anche per l’effetto dotazione gli strumenti migliori per combatterlo sono quelli che riportano nei nostri ragionamenti una certa dose di razionalità. I principali sono due.
Il primo metodo, per quanto possa sembrare banale, consiste nel chiedersi apertamente e a voce alta se non ci stiamo facendo influenzare in modo eccessivo dalle nostre emozioni.
Analogamente, rientra in questo primo metodo la tecnica basata sull’inversione logica della situazione, ossia nel metterci nei panni dell’ipotetico compratore del nostro bene. Se dovessimo acquistare, da perfetti estranei, il nostro bene, saremmo davvero interessati? Quanto saremmo disposti a spendere?
Tornando a uno degli esempi fatti in precedenza, la domanda da porsi nel caso dell’abitazione ereditata è: se dovessi trasferirmi in questa città, sarei interessato a venire a vivere in questo quartiere e in questa casa? Quali sono i punti deboli che mi spingerebbero a tirare sul prezzo al ribasso?
Già solo questo potrebbe facilitare il passaggio al secondo metodo, che consiste nell’appoggiarsi a servizi di consulenza esterna, possibilmente offerti da tecnici con cui non ci siano stati contatti personali in passato. Una valutazione terza e imparziale può aiutarci a vedere le cose in modo più chiaro.
Gli esempi più ovvi, tra quelli visti sopra, sono quello della perizia tecnica di una terza parte sul valore del proprio immobile o, per un’azienda, una consulenza tecnologica e un’analisi costi-benefici sull’installazione di un nuovo sistema informatico.