Nell’articolo di ieri abbiamo avviato una riflessione per comprendere a fondo come diventare noi stessi la bussola per orientarci nella vita che ci aspetta ora, all’inizio della Fase 3.
Immaginiamo di essere nel bel mezzo di una città che non conosciamo, senza alcuna possibilità di connetterci a Google Maps, e di dover raggiungere un punto di interesse che avevamo precedentemente appuntato come destinazione da non perdere.
Se, pur alle prese con un imprevisto, abbiamo ben chiara la destinazione, possiamo dedicarci all’esplorazione, perderci tra le strade della città, scoprire nuovi angoli, osservare le persone, farci prendere da tutto ciò che incontriamo con curiosità. Possiamo, in altre parole, vivere la città nella sua essenza, conoscerla realmente, in modo diretto, reale, profondo. “Mille fotografie di Parigi non sono Parigi” diceva Bergson.
Oggi, all’inizio della “Fase 3”, siamo un po’ come quel viaggiatore: non possiamo più contare sulle mappe fin qui acquisite e se rimaniamo focalizzati troppo sui vecchi percorsi, di fronte all’imprevisto, possiamo perdere il senso dell’orientamento.
In questo contesto, oggi che viviamo questo radicale cambiamento della nostra quotidianità, lavorativa e sociale, dobbiamo accettare di non poter più contare sulle vecchie e consolidate mappe, ma possiamo imparare a diventare bussola.
Questo significa, per prima cosa, chiarire a noi stessi e a chi si relaziona e collabora con noi quale sia la destinazione finale: un obiettivo, uno scopo chiaro e definito verso il quale vogliamo tendere.
Se abbiamo la destinazione, i nostri principi guida, la nostra visione sul chi siamo e che cosa vogliamo ottenere, sapremo riconoscere il nostro nord anche in assenza degli abituali riferimenti in tutte gli ambiti della nostra vita, anche per quanto riguarda le attività della nostra organizzazione lavorativa.
In questa fase di cambiamento, ci è chiesto di esplorare e conoscere realmente – per tornare alle parole di Bergson – nuovi percorsi per raggiungere i nostri obiettivi lavorativi e relazionali. Questo significa imparare a familiarizzare con il “pericolo” (che, nel suo significato originale vuol dire “rischio”, “esperimento”) per trarre il massimo dalla sua fase di esplorazione e sviluppare nuove conoscenze proprio dalla sperimentazione che mette in campo.
High Touch e Low Touch
Nel periodo di quarantena abbiamo cominciato a sperimentare strumenti e modalità di relazione nuove attraverso lo Smart Working, con tutte le sue diverse declinazioni e, probabilmente, la “fase 3” di questa emergenza, con il graduale ritorno alla normalità, ci chiederà di consolidare questo passaggio da un modello “High Touch” ad uno contaminato dal “Low Touch”, esplorando nuove possibilità di riscrivere processi, relazioni con i clienti, dinamiche di lavoro in team, nuove modalità di dialogo e comunicazione.
Si parla di modello di interazione High Touch nell’ambito di una dinamica di relazione (persona-persona, azienda-cliente, venditore-cliente) quando la componente umana ha un ruolo maggiore rispetto all’automazione e alla tecnologia in generale.
È un tipo di comunicazione che si concentra intorno ai lati umani ed emotivi delle persone e richiede un livello di partecipazione molto alto, soprattutto predilige la qualità, piuttosto che l’efficienza o la velocità delle azioni messe in campo. Rappresentano un esempio di questo modello le interazioni che possiamo avere con un call center, con i servizi professionali, come l’andare dal medico, ma anche i processi interni alle organizzazioni, come sessioni di progettazione collettiva con tutto il team.
I modelli Low Touch, di contro, rappresentano interazioni in cui la tecnologia e l’automazione svolgono il grosso del lavoro. Immaginiamo Amazon GO, dove entri in uno store, acquisti ciò che desideri, senza passare per la cassa e senza la minima interazione con un operatore umano, oppure pensiamo alla voce “Acquista ora” del nostro e-commerce preferito.
Ciò che abbiamo cominciato a sperimentare in questo periodo di quarantena, con riunioni ed eventi online, acquisti di beni e servizi tramite app e chat, profilassi e distanziamento sociale estremo nei rari momenti pubblici, si profila come lo scenario più ordinario per i prossimi mesi, per tornare poi a una convivenza tra i due modelli.
Vivremo gli spazi comuni con minor contatto, con distanze dilatate tra i nostri corpi (spazi prossemici). Viaggeremo meno, ci muoveremo lo stretto necessario, saremo sempre più attenti all’igiene, avremo un costante bisogno di maggiori attenzioni, che qualcuno si prenda cura di noi per compensare le distanze intorno a noi, il bisogno di fiducia e ossitocina, che un abbraccio o una stretta di mano prima sapevano soddisfare.
Riscrivere processi e relazioni
Sì, perché per noi esseri umani, la socialità è un bisogno emotivo primario, una tendenza innata, il nostro più straordinario e avvincente meccanismo di sopravvivenza perché ci spinge a creare legami di vicinanza con gli altri, con poche, magari, ma preziose e significative persone che rappresentano per noi un baluardo, un rifugio sicuro designato a proteggerci, o quanto meno a renderci più resilienti, nelle tempeste della vita.
Ma perché, anche ora che abbiamo perso la mappa, questa condizione di emergenza e di lento ritorno alla normalità non impatti oltremodo con il nostro senso più profondo di esseri umani, immersi in una comunità, con il nostro “esserci” in quanto “siamo con l’altro”, nella relazione, non possiamo perdere l’obiettivo, quello di continuare a essere responsivi e connetterci emotivamente con i nostri interlocutori, esplorando la possibilità di pensare e riscrivere i processi, le relazioni con i clienti, le dinamiche di lavoro di squadra.
I modelli di interazione Low Touch possono sembrarci freddi, ma se pensiamo alla definizione che, nel secolo scorso, il filosofo, sociologo e critico letterario canadese McLuhan ha dato di strumenti come la radio, il cinema, il telefono o la tv, possiamo ricrederci.
McLuhan, la cui fama è legata alla sua interpretazione innovativa degli effetti prodotti dalla comunicazione sia sulla società nel suo complesso, sia sui comportamenti singoli, aveva classificato come “caldi” quegli strumenti di comunicazione ad “alta definizione” per la quantità di informazioni che condividono, come la radio o il cinema. Questi ci regalano immagini, suoni, azioni.
Al contempo aveva classificato “freddi” mezzi di interazione a “bassa definizione”, come il telefono o un libro, che ci permettono solo di ascoltare la voce e di immaginare il testo.
Proprio questi ultimi, però, aprono a una maggiore partecipazione dell’utente, richiedendo un maggiore coinvolgimento.
Il concetto di “freddo” e “caldo”, quindi, può essere relativo e dipende in realtà da ciò che stiamo cercando. Lo stesso allora vale per le esperienze Low e High Touch, pure o contaminate.
È vero che dobbiamo ridurre la presenza fisica dei corpi, ma se facciamo nostro l’obiettivo di connetterci emotivamente con il nostro interlocutore, di essere responsivi verso le esigenze del nostro business, di trasmettere autenticità e fiducia anche senza un contatto diretto, possiamo provare a integrare un approccio High touch in un’esperienza Low Touch. Questo vorrà dire trovare una nuova strada per arrivare al cuore, alle reali esigenze dei nostri interlocutori, fornire qualità, non solo economicità e rapidità.
Così, in base alle esigenze del nostro business, possiamo imparare a utilizzare un approccio High Touch per conversazioni più strategiche con i clienti e focalizzare l’automazione per attività di base e amministrative.
Ricordiamo sempre che la tecnologia è uno strumento e non il fine dell’interazione e che la presenza non è solo fisica, soprattutto se significa attenzione e cura verso gli altri, verso chi, come noi, sta vivendo il futuro come un vero e proprio salto nel vuoto.
Come saremo quando finirà questa emergenza?
Nessuno di noi ha la sfera di cristallo per poter rispondere. Ciò che sappiamo è che una nuova fase è pronta per iniziare, ma tutta da scrivere. Molte cose non saranno più come prima e l’incertezza rimarrà.
Arriveranno nuovi problemi e difficoltà, ma porteranno con sé nuove opportunità e le esperienze che abbiamo accumulato e che non avremo dimenticato, le faremo nostre, integrate con nuove modalità di interazione.
Chi ha messo in campo un percorso di innovazione non deve aver paura di rischiare e sperimentare nuove strade, far propri nuovi strumenti, nuove opportunità.
È l’unico modo per aggiungere nuove informazioni, abilità e competenze in qualcosa.
Per poter trovare una risposta alla domanda che tutti noi ci poniamo, e per fare in modo che sia una risposta che ci piaccia, bisognerà impegnarsi molto. Ci sarà bisogno di tutta la nostra intelligenza, di tutto il nostro entusiasmo, di tutta la nostra forza e anche di tutto il nostro coraggio per stare nella paura e nell’incertezza, che ci accompagneranno per un po’, per affrontare i cambiamenti personali, lavorativi, sociali, relazionali che ci aspettano, per costruire il mondo in cui vivremo e chi vorremmo essere con noi stessi e con l’altro.
Sta proprio nel modo in cui affronteremo questi cambiamenti a cui ci sta costringendo il Coronavirus, nel modo in cui impareremo a esplorare nuovi mari per navigare verso le nostre mete, la risorsa più efficace per ritrovare equilibrio, serenità e progettualità verso il futuro.
Il poeta greco Kavafis, nella sua poesia “Itaca” espone meravigliosamente tutto questo quando racconta di come il senso del viaggio di Ulisse non sia l’approdo a Itaca, ma i luoghi, le persone, le avventure che conoscerà.
“[…] Sempre devi avere in mente Itaca
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare”.
(Itaca; Costantino Kavafis, 1911)