La tecnologia può creare interi settori e modelli di business da zero, o sconvolgerne altri. Ma ci vuole più della sola capacità tecnologica per avere un successo duraturo nel medio e lungo termine, e soprattutto ci vuole una forza lavoro competente e appassionata, specialmente se il prodotto o servizio viene offerto direttamente ad altre persone.
Proprio questo potrebbe essere uno dei punti deboli di Uber, più ancora delle beghe legali o delle pratiche concorrenziali al limite. Da più parti gli economisti americani puntano il dito sulla separazione che c’è tra gli innovatori della Silicon Valley e il resto della popolazione lavoratrice.
Nel caso di Uber (così come in altri sistemi di car sharing peer-to-peer), un esempio è dato dai sistemi di valutazione dei guidatori, che se negativo può portare all’esclusione dal sistema. Se da un lato è giusto che siano i clienti a valutare direttamente le performance del guidatore, dall’altro alcune valutazioni negative ingiuste possono portare al “licenziamento” senza che ci sia alcun meccanismo di formazione, accompagnamento o altro.
D’altra parte non si può parlare di licenziamento vero e proprio, dato che Uber, per evitare vincoli contrattuali, considera i suoi guidatori come consulenti indipendenti, rispolverando il modello classico di lavoro “a chiamata”. Si tratta di sicuro del modello più adatto per una forza lavoro che considera l’ingaggio di Uber una forma integrativa di reddito per cui si lavora spesso part-time, ma questo non fa che rinforzare la percezione che Uber, forte della sua tecnologia e dei suoi algoritmi, consideri i suoi guidatori come elementi sostituibili. Una percezione pericolosa proprio perché sono gli autisti di Uber a rappresentarla, volente o nolente, nel suo servizio di taxi e anche in quelli accessori.
Uber non è sicuramente la sola azienda americana in questa situazione: il suo modello di business, al di là degli elementi tecnici, è il medesimo di moltissime altre aziende di trasporto di persone e cose. Molte di queste però si sono rese conto che gli autisti sono una fonte importante di valore aggiunto al loro servizio: non solo si occupano della parte per così dire logistica, ma contribuiscono a fornire il servizio di alto livello che i clienti si aspettano.
Questo è particolarmente evidente nella logistica dei beni. I trasportatori delle aziende del settore food & beverage, ad esempio, hanno tre funzioni fondamentali, egualmente importanti: portare la merce nei punti di consumo finali, riempire gli scaffali o le frigovetrine dei clienti e prendere gli ordini per la consegna successiva. In tutti e tre i casi, anche se in maniera limitata a interazioni di pochi minuti, contribuiscono a gestire la relazione con il cliente dell’azienda, ossia il proprietario del bar o del negozio.
Alcuni di questi lavoratori devono affrontare temi all’apparenza lontani dal “semplice” trasporto, come la gestione dei resi o i reclami, e spesso sono tenuti a standard di comportamento e immagine, perché rappresentano l’azienda nell’interazione con il cliente.
Questi ruoli, specialmente quelli che comportano un contatto diretto con i clienti, richiedono formazione aggiuntiva, nella gestione del servizio e del rapporto con le persone. E questo è destinato ad aumentare nel momento in cui alla consegna fisica del prodotto si aggiungono altri servizi. In un futuro non troppo lontano, in seguito al progressivo invecchiamento della popolazione, è possibile ad esempio immaginare addetti al trasporto che, nel momento in cui consegnano un elettrodomestico, si occupano anche dell’installazione e della garanzia.
Per ora le aziende del consumo condiviso a matrice tecnologica sembrano ancora lontane da queste valutazioni in merito al valore aggiunto dei servizi. Ma forse non è lontano il momento in cui dovranno coniugare il fattore tecnologico con quello umano, e occuparsi di più dei loro guidatori.