E’ nei periodi di crisi che si vedono i frutti dell’ingegno umano, a volte positivi, a volte negativi.
E un caso molto negativo è quello del cosiddetto “de-shopping”, una sorta di noleggio non autorizzato dei vestiti, praticato nei negozi di tutto il mondo, ma specialmente in quelli americani, che in realtà altro non è che una appropriazione indebita, sia pure temporanea.
Il funzionamento è molto semplice: si acquista un vestito e, dopo averlo usato una volta (magari in un’occasione speciale), si riporta indietro dicendo che non va bene. Se si vuole esagerare con le precauzioni (si fa per dire), si allenta un bottone o si tira un filo, per poter dire che è difettoso.
I negozi, che negli USA e nel Regno Unito hanno spesso delle precise politiche aziendali di accettazione dei resi senza fare domande, si riprendono il vestito e rimborsano l’acquisto (in contanti, non in buoni spesa). Ecco quindi che questo comportamento disonesto diventa un modo per godere temporaneamente del prodotto, senza pagarlo.
Il problema è in crescita, in questo periodo. Secondo la NRF (l’associazione dei distributori americani al dettaglio) il costo complessivo di tutte le cosiddette “frodi di restituzione”, che considerano anche la rivendita di beni rubati al negozio d’origine, è stata nel 2011 di 14,4 miliardi di euro. Anche se i prodotti tornano in negozio, infatti, non sono più vendibili a prezzo pieno, e devono essere risistemati prima di poter essere eventualmente rivenduti. A questo si aggiungono poi i costi del tempo e del personale da destinare a queste attività, e quelli delle transazioni che vengono annullate.
I negozi di abbigliamento online sono tra i più vulnerabili, dato che devono avere generose politiche di restituzione, ma sembra che il comportamento stia prendendo piede anche nei negozi di elettronica, dove i clienti “acquistano” televisori per vedere partite importanti, e poi lo riportano indietro.
I protagonisti di queste appropriazioni indebite si stanno anche organizzando, restituendo la merce in negozi diversi di ciascuna catena per non farsi riconoscere, segnalandosi i negozi con il personale più disponibile, o effettuando restituzioni in gruppo e minacciando in questo modo di fare “piazzate”, che i negozi temono per l’effetto negativo sulla clientela regolare.
I negozi hanno però degli strumenti di difesa, e si stanno attrezzando per limitare il fenomeno. Alcuni, particolarmente generosi in passato, anche oltre i limiti di legge, hanno iniziato a stringere i tempi in cui è possibile restituire i prodotti. Inoltre, molti stanno creando uffici appositi per il rimborso, lontani dallo spazio di vendita, in modo da ridurre l’impatto negativo della gestione di queste attività e il rischio di “scenate” create ad arte. Anche la richiesta e la registrazione di documenti per il rimborso aiuta molto, perché consente di individuare i clienti sospetti in quanto recidivi.
L’altra politica, all’opposto, è quella di premiare i buoni clienti. Alcuni negozi, infatti, ricompensano chi non chiede rimborsi per lunghi periodi.