Le piattaforme di condivisione degli appartamenti hanno portato una rivoluzione nel settore dell’ospitalità. Nata con l’intento di replicare il senso di condivisione che deriva dall’ospitare perfetti estranei a casa propria, e dall’essere a propria volta ospitati altrove, Airbnb è diventata ben presto l’esempio più famoso di piattaforma di condivisione che mette in contatto domanda e offerta di servizi, e ha investito fortemente per qualificare la seconda, a vantaggio della prima.
Con tutte le polemiche che ne sono seguite.
Al pari di Uber e soci, che rendono un potenziale tassista chiunque abbia la patente e una macchina, e quindi sono visti come il fumo negli occhi dalle lobby dei tassisti, Airbnb è stato preso di mira dalla categoria degli albergatori, che si vedono ingiustamente defraudati dalla concorrenza, giudicata sleale, di una piattaforma che lucra sull’ingresso nel mercato di migliaia di nuovi operatori, spesso inesperti e inadatti, non sottoposti ai medesimi vincoli normativi e obblighi burocratici delle strutture tradizionali.
E chiunque abbia usato Airbnb almeno una volta sa che su di esso si è riversato un vasto panorama di operatori di varie categorie: dagli ospiti improvvisati (almeno all’inizio), che mettono in affitto su Airbnb la casa ereditata dai nonni, perché abitano in una città d’arte e si guadagna di più che ad affittarla a inquilini stabili, fino ai professionisti della struttura turistica complementare, ossia i proprietari di numerose case e appartamenti; alcuni dei quali, in barba alle norme, dichiarano fiscalmente di avere uno o più bed & breakfast quando esso è palesemente a chilometri di distanza dalla loro abitazione di residenza…
Per il legislatore regionale (a cui in Italia è demandato il governo del turismo) diventa quindi difficile azzeccare il giusto livello di equilibrio tra la promozione della libera imprenditoria, che trattiene reddito sul territorio, aumenta i consumi turistici e magari accresce il numero di posti letto in aree poco servite dagli alberghi, e la tutela della concorrenza.
E’ quindi interessante andare a vedere in quest’ottica due esempi, molto diversi fra loro, di come le Regioni italiane si stanno attrezzando dal punto di vista normativo e amministrativo per gestire questi fenomeni.
L’esempio lombardo
Il primo è quello della Lombardia, che ha recentemente attivato l’iter di introduzione di un bollino di riconoscimento, il codice identificativo di riferimento (Cir) per le case e gli appartamenti per vacanze che si promuovono sui portali del turismo.
Come si legge in una nota della DG Sviluppo Economico:
L’introduzione del codice identificativo, a cui lavoriamo da tempo, è una semplicissima garanzia di trasparenza per tutti, per i Comuni che devono effettuare i controlli e per gli stessi portali di sharing economy. Non aggiunge oneri ed adempimenti particolari, ma semplifica e contribuisce a creare un contesto di chiarezza.
Già con la nuova legge regionale di riordino del settore turistico del 2015 la Regione aveva introdotto una serie di nuove tipologie di operatori, cercando di definire meglio per ognuna di esse le caratteristiche fondamentali e i vincoli da rispettare per poter operare nel rispetto della legge, come ad esempio la comunicazione di avvio attività, il rispetto di alcuni standard qualitativi essenziali, il rispetto delle normative statali in materia fiscale e di sicurezza, la comunicazione dei flussi turistici e l’adempimento della denuncia degli ospiti in base alle indicazioni dell’autorità di pubblica sicurezza.
Il nuovo bollino di qualità, ha precisato l’Assessore regionale Mauro Parolini durante la sua presentazione, non avrà costi né eccessivi oneri burocratici per gli operatori, ma intende essere un ulteriore strumento di promozione delle strutture in regola. Anche se è di diverso avviso Airbnb, che ritiene che questo strumento aggiunga nuova burocrazia e scoraggi i proprietari di case dall’investire per metterle a disposizione dei turisti o li spinga a restare nell’illegalità.
Sarà interessante leggere attentamente il testo della legge per capire quali delle due parti ha ragione.
L’esempio sardo
Il secondo esempio, purtroppo meno positivo, viene dalla Sardegna, regione anch’essa ricchissima di flussi turistici, e dove quindi le case vacanza possono essere un’occasione importantissima di generazione di reddito per gli abitanti.
Purtroppo però, la Sardegna non sembra essere orientata alla medesima semplificazione burocratica e amministrativa proposta dalla Lombardia, pur avendo adottato anch’essa già nel 2013 una legge di riordino amministrativo del settore turistico.
Come riporta questa lettera, pubblicata sul blog dell’Istituto Bruno Leoni, due coniugi sardi hanno infatti deciso di abbandonare la decisione di aprire un Bed & Breakfast ad Alghero, dopo essersi scontarti con la pesante (e costosa) mole di documentazione burocratica richiesta all’apertura e per i periodi di attività della struttura.
Se questo è l’orientamento del governo sardo, ne risultano penalizzati non solo i sardi che vogliono aprire un’attività turistica (e che quindi o rinunciano a farlo, o decidono che è ancora più conveniente farlo “in nero”), ma anche tutti i turisti, che in un caso perdono un’offerta di ospitalità alternativa, e nell’altro sono meno tutelati dalla situazione di illegalità.
L’Italia, si sa, è lunga e stretta. Ma forse un approccio organizzato e unificato a queste tematiche non sarebbe fuori luogo…