In piu di 500 città in 50 paesi le biciclette condivise sono ormai un elemento fisso del traffico cittadino. Nei 10 anni che vanno dal 2004 al 2013 i progetti di bike sharing sono cresciuti in numero di dieci volte.
Il modello di funzionamento di funzionamento di quelli attuali è semplice: gli utenti prelevano e restituiscono le bici presso alcune stazioni, che sono ubicate per lo più nei centri cittadini. Gli abbonamenti vanno da una cauzione di pochi dollari ad abbonamenti ben piu costosi (ad esempio 145 dollari all’anno). I primi 30 minuti di uso sono in genere gratuiti, dopodiché si pagano i minuti in più (per stimolare l’uso solo per tragitti brevi). Le bici sono di qualità variabile: da quelle estremamente spartane di Hangzhou, in Cina, a quelle super lussuose di Copenaghen, con GPS e tablet incorporato.
Il bike sharing ha fatto molta strada dagli anni ’60, quando il primo esperimento con 50 bici ad Amsterdam si chiuse con un flop (furono tutte rubate). Anche il secondo, con bici da sbloccare con le monetine (come i carrelli del supermercato) finì allo stesso modo, e solo con il terzo, con lucchetti elettronici e pagamento con carta di credito, ebbe successo.
Oggi il bike sharing va verso una sorta di quarta generazione, dove ci sono sistemi di supporto elettrico alla pedalata e software che programmano la redistribuzione delle bici tra le postazioni in funzione della domanda prevista. Alcune città vanno verso l’integrazione con i sistemi di trasporto pubblico.
L’Europa è all’avanguardia per numero di progetti, ma l’Asia è il continente con più biciclette: 350.000 nella sola Cina. Anche gli USA, da sempre più favorevoli ai mezzi motorizzati, dovrebbero veder crescere il numero di progetti dai 21 del 2012 a oltre quattro volte tanti nel 2014. Londra, che ha già 8.000 bici in condivisione, dovrebbe vedere l’aggiunta di altre 2.000 nel 2014. Il sistema Vèlib di Parigi ha già registrato 173 milioni di viaggi.
Chi paga il bike sharing
I sistemi di remunerazione dei progetti di bike sharing sono molto vari, innanzitutto perché spesso si tratta di partnership pubblico-privato, il che significa che tra i ricavi ci sono contributi pubblici, pagamenti degli utenti e forme di pubblicità e sponsorizzazione. Il sistema di New York, ad esempio, pur essendo sponsorizzato da Citibank e MasterCard, fa pagare molto più di altri, e ha l’obiettivo di sviluppare profitti nel corso del tempo. A Parigi, così come a Milano, l’agenzia di pubblicità JCDecaux contribuisce al pagamento dei costi di gestione a fronte della possibilità di usare gli spazi pubblicitari legati al bike sharing e ad altre forme di pubblicità all’aperto.
Le bici del sistema di bike sharing londinese (chiamate “le bici di Boris” perché furono introdotte dall’allora sindaco Boris Johnson), godono di una sponsorizzazione della banca Barclays, ma ciononostante attingono per metà dei costi alle casse comunali, come tutti gli altri mezzi di trasporto pubblico.
Insomma, non esiste un sistema di bike sharing uguale all’altro, ma in fondo è giusto così, dato che i benefici (minore traffico e inquinamento, minore congestione dei mezzi pubblici e dei posteggi, miglioramento della salute delle persone) sono in parte patrimonio collettivo e non solo di chi pedala in città.