Tu ce l’hai una strategia?

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Un recente articolo pubblicato su “Forbes” mette in luce quanto il termine “strategia” sia presente in ogni azienda come parola di uso comune, ma anche quanto sia la più incompresa e manipolata.

Il problema risiede nella proliferazione di diverse strategie e capitoli di lavoro “strategici” all’interno dell’azienda che, in realtà, coinvolgono pochissima strategia nel senso economico del termine; semplicemente, servono come “ombrello” per quelle attività aziendali che non rientrano in nessun’altra categoria, anche le più elementari come l’approvvigionamento della cancelleria. Secondo Michael Porter, “strategia” è un termine largamente abusato. A volte, le organizzazioni confondono “strategia” con la missione o l’efficacia operativa, oppure distorcono la “strategia” sbilanciandola sulla domanda o sulle presunte esigenze dei clienti. Altre volte, dopo aver adottato un insieme di iniziative usate dalla concorrenza, le organizzazioni sviluppano una “strategia” che lascia la stessa sensazione di una pittura cubista deformata (per usare le stesse parole di Porter). L’aspetto più allarmante è che molte organizzazioni credono di avere una strategia quando in realtà non ce l’hanno.

Nel libro “Understanding Michael Porter, The Essential Guide to Competition and Strategy”, basato su una lunga intervista rilasciata dall’economista a Joan Magretta della Harvard Business Review, Porter conferma questo dato come allarmante: “Dovrei dire che l’errore peggiore – il più comune – è non avere affatto una strategia. La maggior parte dei dirigenti pensa di avere una strategia quando non ce l’ha; almeno non una strategia che soddisfi qualsiasi tipo di definizione rigorosa ed economicamente fondata”. L’intera nozione tradizionale di strategia, come qualcosa che valuta rigorosamente l’unica scelta perseguibile, sia dal lato dell’offerta che della domanda, crolla in molte organizzazioni. Nessuna strategia significa nessuna direzione: una situazione che, di conseguenza, accelera accidentalmente il numero di iniziative intraprese da un’azienda. “L’essenza della strategia riguarda le scelte” dice ancora Porter. Ma se non hai una strategia, come puoi dire di fare delle scelte strategiche?

L’incapacità di fare delle scelte

Le scelte organizzative determinano l’allocazione delle risorse. “Sembra semplice, ma molte aziende non possono farlo. C’è una fondamentale incapacità di fare le scelte giuste” aggiunge Porter. Saper fare delle scelte è esattamente dove molte organizzazioni vacillano. Non si tratta di fare scelte giuste o sbagliate, ma di non fare nessuna scelta. Le iniziative si gonfiano e presto un’organizzazione si sente incoerente o sopraffatta. Ma come può accadere di finire in questo sterile surplus operativo? Un recente articolo della Harvard Business Review dal titolo “Troppi progetti: come affrontare il sovraccarico di iniziativa” di Rose Hollister e Michael Watkins, affronta proprio questa domanda ed evidenzia alcuni aspetti ostacolanti, che schematizziamo mantenendo la loro denominazione in lingua originale. A voi le riflessioni conseguenti.

 

Impact Blindness: molte organizzazioni non dispongono di meccanismi per identificare, misurare e gestire le richieste che le iniziative pongono ai manager e ai dipendenti che dovrebbero svolgere il lavoro.

Multiplier Effects: poiché le funzioni e le unità spesso impostano le loro priorità e lanciano iniziative isolate, potrebbero non comprendere l’impatto su funzioni e unità vicine.

Political Logrolling: “Sosterrò le tue iniziative solo se tu sosterrai le mie”.

Unfunded Mandates: i team esecutivi spesso incitano le loro organizzazioni a raggiungere obiettivi importanti senza fornire ai manager e alla squadra e risorse necessarie per realizzarli.

Band-Aid Initiatives: quando i progetti vengono lanciati per fornire soluzioni limitate a problemi significativi il risultato può essere una proliferazione di iniziative, nessuna delle quali può affrontare adeguatamente le cause di fondo.

Cost Myopia: un’altra correzione parziale, che può esacerbare il sovraccarico, sta nel tagliare le persone senza tagliare il lavoro correlato.

Initiative Inertia: le aziende spesso non hanno i mezzi (e la volontà) per fermare le iniziative esistenti. A volte è perché non esiste alcuna deadline precisa che possa determinare quando chiudere le cose.

 

Per riassumere, Hollister e Watkins scrivono: “Quali compromessi siamo disposti a fare?”. Scegliere i compromessi e fissare dei limiti è difficile. Le organizzazioni sono spesso spaventate nel rinunciare a qualsiasi iniziativa quando un concorrente si trova in ginocchio o recupera posizioni. In parte, questo può essere ricondotto alla normale disposizione umana. “La natura umana rende davvero difficile fare dei compromessi, o accettare di farli. La necessità di un compromesso è un’enorme barriera. La maggior parte dei manager odia fare tradeoff, odiano accettare i limiti. Preferiscono quasi sempre provare a servire più clienti oppure mettere in campo più funzionalità. Non possono resistere alla convinzione che ciò porterà comunque a maggiore crescita e maggiore profitto” afferma sempre Porter.

Persone a servizio delle strategie (non il contrario)

Un ostacolo umano ancora più fondamentale viene accennato in un altro studio psicologico pubblicato nello stesso numero di ottobre della Harvard Business Review: “Le persone innamorate di sentirsi impegnate tendono a esagerare la propria importanza”. Le persone amano sentirsi importanti, indipendentemente dall’impatto sulle strategie e su ciò a cui stanno lavorando. Caso tipico è la moltiplicazione delle riunioni. Le organizzazioni, come le persone, hanno difficoltà a rimanere fedeli alla propria essenza, specialmente quando le distrazioni e le pressioni esterne aumentano. Il fascino delle iniziative lanciate dai concorrenti, ad esempio, ha un impatto solitamente molto forte sul nostro bisogno di lanciarle, ma è un procedere errato. È la natura umana a essere coinvolta (re)attivamente alla competizione. “Quando chiedi a un’azienda che cosa significa avere successo, la risposta più frequente è: ‘essere il migliore nel mio settore’. Questo è un modo naturale di pensare degli esseri umani, ma nella competizione di mercato non è questo il modo di pensare al successo. Il motivo è che non esisterà mai una migliore compagnia, in senso generale”,  sono sempre parole di Porter. Molte organizzazioni hanno perso di vista questo fatto. La base di una strategia di successo è la non universalità. Una strategia di successo è di per sé idiosincratica.

Un piano? Cos’è?

Kevin Appleton

Per rimanere più strettamente nell’ambito del noleggio, in un articolo pubblicato sul numero di settembre di International Rental News, il consulente Kevin Appleton (ex CEO del Gruppo Lavendon) si chiede – chiedendo alle aziende di noleggio – cosa sia un planning e quante tipologie sarebbe corretto redarre (rigorosamente per iscritto). Anche Appleton, come Porter, parte dal presupposto che la confusione degli ambiti non porta a niente di buono e propone tre diverse strutture di planning: quello strategico, il business plan e il piano operativo. Vediamo come le descrive.

Nel piano strategico devono trovare posto i quesiti esistenziali e quelli relativi all’ambiente in cui ci si trova a operare: ci vanno la mission (perché esistiamo? Cosa ci distingue?) e la vision (cosa voglio diventare nel futuro? Quali cambiamenti metto in atto per questo obiettivo?). Domande tipo: faccio soldi nel breve oppure mi preoccupo di sostenere la mia crescita? Ogni iniziativa di business (e ogni strategia conseguente) dovrebbe partire da domande come questa, sostiene Appleton citando Simon Sinek, proiettando su tutte le aree organizzative possibili la massimizzazione degli impatti delle strategie pensate. Un esempio di domanda per un noleggiatore sarà: come posso eliminare le inefficienze che succhiano alla mia azienda risorse che io posso destinare in valore erogato ai clienti? L’esempio ci fa capire che ogni interrogativo conduce a scelte strutturali e non ad azioni emotivo-reattive.

Il business plança va sans dire, è la trasposizione nel presente reale della porzione di piano strategico che ci tocca affrontare in un arco temporale preciso: che risorse ci occorrono per perseguire i nostri obiettivi concreti il prossimo anno. Può essere anche nei prossimi sei mesi oppure cinque anni, non importa. Ha a che fare con i passi concreti da compiere, quanto occorre per farli e dove allocare le risorse. Lanciare un nuovo servizio, sviluppare una nuova area di business, rinnovare il parco mezzi, eccetera. Cose già note, insomma.

Il piano operativo sono le azioni concrete, descritte meticolosamente, per attuare il business plan: come, chi, cosa, quando, eccetera. Attuare le scelte e misurarne gli effetti.

Possiamo dire che sono cose basilari per qualunque azienda, ma Appleton conclude pessimisticamente, come Porter, affermando che la maggior parte delle realtà di noleggio che lui conosce fanno ancora i loro piani operativi applicando ciò che è stato fatto l’anno precedente e addizionando un 3 o 4% di risorse in più a seconda dei casi. Più che un piano, una predizione, conclude il manager.

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