L’abito non fa il Monaco

Fare sistema
Fare sistema

Qualche mese fa, su queste pagine, ragionavamo sul concetto di fare sistema inteso come passaggio inevitabile e ormai improrogabile per tornare a pensare in grande.

Fare sistema – dicevamo – significa mettere da parte gli egoismi, gli scetticismi, i disfattismi e condividere progetti che hanno lo scopo di far funzionare qualcosa al meglio: un’azienda, un’associazione, una fiera, ad esempio. E instaurare un circolo virtuoso che porti a tutti un valore aggiunto concreto e reale. In questo senso, ogni esperienza diventa importante e ogni tipo di organizzazione che possieda questa visione può concorrere alla crescita o alla ripartenza di un settore. Lo si è visto in alcune recenti esperienze di tipo fieristico, dove la caparbietà di chi non si è arreso agli inevitabili insuccessi degli ultimi anni, in qualche modo ha ripagato. In questo particolare segmento, alcuni elementi che si sono manifestati nello scenario nazionale e internazionale nell’ultimo decennio hanno determinato un rapido stravolgimento del tradizionale ruolo di catalizzatore, costringendo gli operatori, in alcuni casi traumaticamente, a un ripensamento del modello.

In particolare, le manifestazioni strettamente legate a settori oggettivamente più in crisi hanno visto erodere i cardini su cui basavano i loro modelli di business, con la conseguente necessità di riposizionare l’identità e l’offerta. L’avvento delle tecnologie, le nuove dinamiche tra il sistema produttivo e quello finanziario, la perdita di centralità di alcuni comparti, sono i principali fattori d’influenza nella creazione di questo scenario.

Se fare sistema significa guardare tutti nella stessa direzione, ed eventualmente generare un elevato numero di interazioni e una forte collaborazione tra tutti i soggetti che possono contribuire al processo di recupero della competitività, possiamo dire che il “sistema fiere”, ivi compresi i loro naturali interlocutori di prima battuta, non ha saputo fare sistema. Il bisticcio di parole, di cui chiedo venia, scaturisce da un’evidenza: in un ecosistema, i singoli soggetti mantengono la propria autonomia gestionale, ma sono tenuti insieme da uno schema organizzativo e da una fitta rete di legami e relazioni che consente loro di muoversi come un’unica entità. Ragionare in prospettiva sistemica e secondo una logica di rete avrebbe pertanto dovuto evidenziare la consapevolezza della propria singola identità come parte di un ecosistema multidimensionale, dotato di strutture concettuali e di parole chiave, quantomeno di comportamenti differenti da quelli tradizionalmente conosciuti e attivati in dimensioni autonome nel passato. In questo senso, le fiere sono state carenti.

Se vogliono utilizzare al meglio le tecnologie e l’innovazione, le imprese (e quindi anche gli enti fieristici) devono usare le conoscenze, le prestazioni e i capitali di altri partecipanti all’ecosistema e magari pensarsi anche in ottiche più ampie e trasversali, non solo in riferimento ai mercati geografici da conquistare o a posizioni di rendita da difendere, ma di segmenti nuovi da presidiare e perfino di nuovi linguaggi con cui farsi capire. Serve, però, un collante che tenga insieme i molti e diversi contributi che devono integrarsi e questo collante saranno certamente le relazioni collaborative tra imprese, associazioni ed enti che, pur restando autonomi, investono sulla relazione, creando un rapporto di reciproca fiducia e di condivisione dei progetti da portare avanti, lasciandosi magari alle spalle l’antica logica competitiva della contesa quasi militare del territorio (inteso sempre in senso non solamente geografico). Il presidio del mercato, infatti, non è il gioco del Risiko: siamo in una fase di instabilità che presenta sempre rilevanti minacce ma che, a chi cerca di investire sul futuro attraverso nuove regole, lascia intravedere grandi opportunità

Se non si vuole cedere alla logica disfattista – e alla lunga un po’ snob – di considerare l’Italia come un mercato chiuso e asfittico, occorre mettersi nell’ottica di una nuova cultura del fare impresa, con una visione delle cose orientata al futuro e non inerziale, perché la tradizione italiana e le differenze distintive rispetto ad altri paesi vanno oggi non solo celebrate, ma anche reinventate, in modo da renderle riconoscibili e apprezzate nel nuovo contesto globale in cui siamo chiamati a operare.

Parlando di sistemi, la frammentazione che caratterizza il nostro Paese appare un forte incentivo allo sviluppo di reti che consentano a imprese, associazioni ed enti di superare i limiti di azione connessi alla piccola dimensione o alla scarsità di capitali e di capacità conseguenti, anche se questo rischia di essere vero solo sulla carta. Nella realtà, lo sviluppo delle reti o di altre forme di collaborazione tra soggetti economici incontra una barriera importante nella cultura individualistica che caratterizza l’imprenditorialità personale, tipica del tessuto italiano che, paradossalmente, si riflette anche sulle associazioni e sulle fiere (e quindi su tutto il sistema). Tuttavia, le reti non nascono soltanto perché, da un punto di vista strategico, è utile metterle in campo. Quando il futuro è incerto, le reti possono prendere forma e consolidarsi se rendono, ossia se sono in grado di generare un valore aggiunto per i partecipanti.

Qualche pensiero sul Bauma

Bauma 2016Scrivo queste riflessioni sotto l’effetto della partecipazione al recente Bauma di Monaco. Bauma è tornato a essere una vera e propria kermesse, forse più che in passato, a tal punto che quasi si fatica a considerarla la fiera di riferimento di un settore in crisi. Tutto è enorme, smisurato; tutto funziona, tutti ci passano. Sarebbe curioso, in proposito, leggere le considerazioni di qualche psicanalista o filosofo su cosa sia diventata questa manifestazione nel tempo, ma basterebbero le impressioni di ognuno dei partecipanti, da qualsiasi parte del banco siano transitati.

Personalmente, non amando gli eccessi, ritengo che il Bauma 2017 sia stato semplicemente una (necessaria) iniezione di fiducia per il mercato nella sua globalità ma che, proprio per la sua inarrivabile grandeur, rischi di diventare un evento unico, isolato e privo di continuità. Nessuno ha bisogno di eventi “autistici” e perciò Bauma è da considerarsi un punto sulla mappa della nuova economia di settore, né più, né meno. Al Bauma si rischia di ubriacarsi vivendo in una sorta di bolla di business più psichedelica che reale (anche fuori di metafora, peraltro), ma al risveglio bisogna sempre rimboccarsi le maniche, da qualsiasi parte del mondo ci si trovi e ognuno nel proprio sistema.

Su oltre 500 aziende italiane presenti, quasi 150 non hanno trovato posto. C’è da chiedersi dove spariscano, poi, tutte queste realtà così aperte al mondo, quando si ritorna a parlare la medesima lingua. E, infatti, la parola passa adesso a una dimensione più normale ma altrettanto importante, che sarebbe ingiusto e pericoloso snobbare, per le ragioni dette fin qui. La palla passa ora al SaMoTer 2017, certamente uno dei principali punti di riferimento non solo per l’edilizia, ma per tutto il sistema fieristico e non solo per l’Italia. SaMoTer è e rimane una manifestazione storica di enorme importanza, nazionale e internazionale; come altre assimilabili ha vissuto un’implosione dimensionale che l’ha trasfigurata (alla stessa stregua del mercato che rappresenta, del resto) ma più di altre è stata rapidamente, opportunamente, e direi brillantemente, oggetto di un ripensamento profondo per un rilancio reale, non solo per restare a galla, ma per riprendersi la funzione originaria in chiave evolutiva. Lo stile è: “Testa bassa e lavorare”, parafrasando le consuete parole con cui Maurizio Arrivabene – un altro che ha l’urgente obiettivo di riportare ai vertici qualcosa di italiano con una bella storia alle spalle – ama concludere ogni gran premio.

Bauma 2016 a MonacoQuella di febbraio 2017 sarà la 30^ edizione. Scegliendo di dare centralità ai nuovi temi connessi alla crescita strategica globale del settore negli anni a venire – quali l’emergenza, la tutela ambientale e del territorio e il dissesto idrogeologico – la manifestazione offre punti di convergenza interessanti che provano a intercettare l’interesse degli operatori e dei visitatori anche attorno a elementi meno “hardware”, concedendo più spazio a contenuti di natura innovativa. SaMoTer sta provando concretamente a fare sistema, o quantomeno ne offre l’opportunità. L’identità della manifestazione legata all’uso di prodotti, servizi, materiali, macchine e attrezzature si plasma attorno a nuove dimensioni in cui sviluppare temi di cultura imprenditoriale, in cui i mezzi di lavoro diventano soluzioni economiche e strumenti produttivi, magari a costi variabili e strettamente attinenti ai ritorni economici, anziché solamente come impiego di capitali o asset di proprietà. In questo, troviamo molti punti di contatto anche con il noleggio e i suoi temi.  A Verona non ci sarà magari la birra che scorre a fiumi, ma c’è sempre l’amarone, che necessita di essere sorseggiato con più calma.

Speriamo sia considerata un’occasione per tornare a fare davvero sistema.

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