Finiremo per tutelare anche la nostra arretratezza?

fantozzi paolo villaggi
fantozzi paolo villaggi

In questi giorni, ma direi ormai da qualche mese, al centro della scena politica italiana sembra esserci esclusivamente il contrasto alla migrazione con ogni mezzo, con toni che stanno degenerando in modo preoccupante verso l’odio razziale. Al di là di ogni considerazione sul piano umano, questo atteggiamento rappresenta  l’ennesimo esempio di miopia e arretratezza del nostro paese a livello di sviluppo economico. Peraltro, tra gli altri temi che affiorano in chiaroscuro, c’è sempre l’incubo del nostalgico ritorno alla vecchia lira, tema che tanto piace ai mercati e allo spread. Alcuni autorevoli esponenti dell’economia italiana come Tito Boeri, Presidente dell’Inps e Carlo Cottarelli, per qualche giorno incaricato da Mattarella alla formazione di un governo tecnico che portasse il Paese fuori dall’impasse post elezioni, hanno messo bene in guardia dai rischi di un’economia asfittica generata dall’eventuale escalation di atti politici sovranisti e protezionisti. Che dire, siamo orgogliosamente il paese di Fantozzi, perciò avanti tutta.

I paradossi del Made in Italy   

Ma facciamo un passo indietro: nel giugno del 2016, l’Unesco pubblica una lista di opere e luoghi candidati a diventare “Patrimoni dell’Umanità”. Il governo italiano, con l’appoggio di numerose associazioni imprenditoriali, propone e ottiene il riconoscimento per “l’arte tradizionale dei pizzaiuoli napoletani”. La pizza, infatti, nel mondo è uno degli indiscutibili simboli dell’Italia (in questa sede tralasciamo gli altri) e del cosiddetto Made in Italy. Il primo paradosso, all’epoca rilevato molto bene dall’Economist, è che non esiste però nessuna grande catena di pizzerie di origine italiana. Sono, infatti, gli americani di Domino’s Pizza e Pizza Hut che ottengono i maggiori profitti dalla produzione industrializzata di pizza. Stesso discorso per il caffè espresso, probabilmente la vera bevanda nazionale italiana: la catena più grande di caffetterie al mondo è Starbucks, mentre nel consumo casalingo e per gli uffici sono gli svizzeri di Nespresso ad aver trasformato la tazzina in un business planetario.

Come scrive appunto l’Economist, l’ossessione italiana per la rivendicazione nazionale della pizza e per gli altri prodotti della “qualità italiana” la dice lunga sui problemi della nostra economia: siamo i migliori nel richiedere tutele sui prodotti tipici –  924 prodotti italiani sono “garantiti” dall’Europa, contro 754 prodotti francesi e 361 prodotti spagnoli – ma non siamo altrettanto bravi a vendere questi prodotti su scala industriale e planetaria. Uno degli elementi di cui un produttore ha bisogno è, infatti, una distribuzione in grado di raggiungere tutto il mondo; ma non esiste nessuna catena internazionale di questo tipo che sia italiana. Persino dentro i nostri confini, fatta eccezione per Esselunga, il mercato è in mano ai francesi di Carrefour e Auchan. Anche Eataly, la fin troppo celebrata iniziativa di supermercati che vende prodotti di qualità, sviluppa un fatturato di appena 400 milioni, e difficilmente può competere con i colossi della grande distribuzione, che hanno fatturati nell’ordine delle decine di miliardi di euro.

L’autolesionismo della tutela

Le ragioni di queste tattiche fallimentari sono da ricercare proprio nella sacralizzazione del “Made in Italy”. Scrive l’Economist: “L’Italia tradisce un innato protezionismo, piuttosto che imparare a competere sui mercati mondiali i produttori italiani chiedono aiuto dell’Europa per tutelare i loro marchi tradizionali e massimizzare le rendite che riescono a estrarre dal loro prodotti di qualità”. Un po’ come è avvenuto fino a qualche tempo fa anche nel nostro minuscolo mercato del noleggio. Ossessionati dalla tutela delle denominazioni, delle tradizioni e delle indicazioni geografiche, i produttori italiani hanno trascurato aspetti importanti come produttività, inventiva e distribuzione. A volte con dei clamorosi e ridicoli  autogol.

Alcuni anni fa, i produttori della focaccia di Recco sono riusciti a ottenere una severissima certificazione: oggi una focaccia si può chiamare “di Recco” soltanto se viene seguita minuziosamente la complessa ricetta e solo se la focaccia viene prodotta nel comune di Recco e in un altro paio di piccoli comuni limitrofi. A dicembre, il “Consorzio focaccia di Recco” ha aperto uno stand alla fiera dell’artigianato di Rho dove distribuiva assaggi di focaccia di Recco. Quando sono arrivati i carabinieri, lo stand è stato chiuso e i gestori sono stati denunciati per frode alimentare. Infatti, se la focaccia si può produrre solo a Recco, e non si può surgelare e quindi trasportare, allora fuori da Recco non si può nemmeno mangiarla. Quindi anche uno stand promozionale dello stesso “Consorzio focaccia di Recco” è illegale. Di fatto, per proteggersi dalla virtuale concorrenza, i produttori della focaccia di Recco si sono tagliati ogni possibilità di crescere ed esportare il loro prodotto.

Un altro caso eclatante è quello di Roberto Brazzale, la cui famiglia produce da generazioni il Grana Padano. Brazzale ha trasferito la produzione in Repubblica Ceca, dove i costi sono minori e il latte è di qualità più alta. Il suo “Gran Moravia” è fatto seguendo i criteri di produzione italiani e viene riportato in Italia per l’invecchiamento: è probabilmente indistinguibile dal Grana Padano italiano, ma non può essere chiamato così. La valle del Po, spiega, non potrà mai produrre abbastanza latte da soddisfare la domanda mondiale di Grana Padano.

Tuteliamo il nulla

Non so quali siano le vostre conclusioni in proposito, ma è evidente che la sacralizzazione delle nostre eredità sia una delle ragioni che spiegano perché la produttività in Italia non stia crescendo ormai da più di un decennio. Il problema è che, nell’orizzonte politico nazionale la tutela protezionistica sta prendendo il posto dello sviluppo tecnologico e delle grandi sfide per l’innovazione, in ogni campo. Certo, anche l’Inghilterra e l’America ora hanno i loro problemi, generati proprio dalle spinte populiste e sicuramente dagli errori fatti dalle passate amministrazioni. Ma da noi, proprio in questi giorni, si sta passando il tempo a discorrere se mettere il crocefisso obbligatorio nei luoghi pubblici o meno, mentre alcune scelte di sviluppo tecnologico che altre nazioni stanno assumendo, sarebbero da prendere in esame con più urgenza. Probabilmente, la prossima cosa che potremo tutelare come Made in Italy sarà la nostra conclamata posizione ai piani più bassi di tutte le classifiche virtuose relative a istruzione, industria, tecnologia. Dall’aria che tira, può anche essere che l’obiettivo dell’attuale governo sia proprio questo: vantarsi di essere il paese più arretrato. Altre nazioni, ben più arretrate di noi come il Portogallo, hanno preso la cosa un po’ più seriamente e in pochi mesi sono riusciti a invertire la tendenza puntando proprio sulla socialità, sull’istruzione e sull’immigrazione controllata, guarda caso.

Vorrei comunque chiudere con una nota positiva: sempre l’Economist dice che se in una pizza si possono vedere molti dei mali d’Italia, in una pizza si può anche scorgere la sua possibile salvezza: i pomodori arrivano dal Nuovo Mondo, la mozzarella viene fatta con il latte di bufala, un animale dell’Asia portato in Italia durante le invasioni barbariche, il basilico arriva dall’India. E sono stati i migranti italiani a portare la pizza di là dell’oceano, negli Stati Uniti.

Il genio italiano si trova ancora nell’inventiva e nell’adattabilità, non in un’immaginaria tradizione canonizzata e protetta da autolesionistiche leggi promosse dallo stato.

PS: articolo ispirato da “La sacralità del Made in Italy è una rovina” pubblicato su Il Post nel 2016, a sua volta ispirato da un’analisi di Economist.

Tag dell'articolo: sviluppo e strategie

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